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Zamparini, i Giochi di Roma e la grande boxe italiana

di Vice


L'altro ieri, mercoledì 21 agosto, le agenzie hanno battuto la notizia della morte di Primo Zamparini. Era uno degli ultimi viventi di quella straordinaria nidiata di pugili dilettanti che portò lo sport italiano a dominare tra le dodici corde i Giochi Olimpici di Roma con la conquista di tre medaglie d'oro, tre d'argento e una di bronzo, negli incontri che presero inizio il 25 agosto di 64 anni fa. Sette medaglie in dieci categoria. Nessuna altra nazione più in alto dell'Italia.

Comprensibile l'eco che ha popolato il web, in cui il ricordo del personaggio sportivo, nato a Fabriano nel 1939, è stato accarezzato da una brezza di nostalgia per quella grande e irrepetibile stagione del pugilato italiano alle Olimpiadi romane, i giochi più incantevoli e suggestivi dell'età moderna. Sul quadrato salì infatti la meglio gioventù della nostra boxe, il cui credito era già riconosciuto a livello internazionale. Era una nazionale allevata e selezionata da due grandi maestri, due straordinari scopritori di talenti che rispondevano ai nomi di Natalino Rea (responsabile) e di Armando Poggi (vice), soprannominato Piripicchio nella sua attività agonistica negli anni Trenta e Quaranta, il cui vero e unico problema era quello dell'abbondanza, come avrebbero dimostrato le successive carriere nel professionismo, salvo alcuni casi di rinuncia volontaria, segnate da titoli nazionali, europei e mondiali tra gli anni Sessanta e Settanta.

A Roma, una delle medaglie d'argento fu appesa proprio al collo di Zamparini (nella foto in alto sul podio) la cui cavalcata verso l'oro dei pesi gallo, dopo essersi sbarazzato del greco Panagiotis Kostarellos, del giapponese Katsuo Haga, dello statunitense Jerry Armstrong e dell'australiano Oliver Taylor in semifinale, fu frenata all'atto finale dal sovietico Oleg Grigor'ev, davvero un brutto cliente per combattività ed esperienza. Fu una dura battaglia, ricordano le cronache, in cui entrambi i pugili conobbero il conteggio al tappeto. Stesse battaglie cui andarono incontro le altre due medaglie d'argento, quella del non ancora ventunenne Sandro Lopopolo, nei pesi leggeri, superato dal navigato polacco, Kazimierz Paździor, e di Carmelo Bossi, anche lui un classe 1939, nei pesi superwelter, battuto da Wilbert James McClure, considerato uno degli astri nascenti della boxe statunitense, che nel 1966 avrebbe combattuto due volte contro il quotato Rubin Carter Hurricane, la cui carriera sarebbe stata brutalmente atterrata non da un colpo di knock down avversario, ma dalla falsa accusa di omicidio per rapina, inventata di sana pianta dagli inquirenti.

Sia Lopopolo, sia Bossi, entrambi milanesi di nascita, divennero campioni mondiali di categoria: il primo nei pesi welter junior, sulle orme di un altro grande, Duilio Loi; il secondo nei medi junior, la categoria che nel 1963 aveva già visto l'ascesa di un altro grande guerriero del ring, Sandro Mazzinghi, superato proprio da Bossi nelle qualificazioni per le Olimpiadi e chiuso nella categoria inferiore, quella dei welter, dal miglior talento dell'epoca della boxe italiana, Nino Benvenuti, triestino, classe 1938. E nei welter, fu proprio di Nino Benvenuti la medaglia d'oro, lo stesso prezioso metallo che baciarono alle premiazioni il piemontese Francesco Musso, campione nei pesi piuma, e Franco De Piccoli, re olimpico dei pesi massimi.

L'unica medaglia di bronzo fu appannaggio nei mediomassimi di Giulio Saraudi (figlio d'arte e allievo di Carlo Saraudi, che aveva partecipato alle Olimpiadi di Parigi nel 1924) che sarà sempre ricordato per aver partecipato al torneo dove Il più grande scrisse il primo capitolo di una storia inconfondibile e inarrivabile: Muhammad Ali.

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