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Ivano Barbiero

Viaggio nell'Italia insolita e misteriosa

Aggiornamento: 17 nov 2023

Torino: la "Fetta di Polenta", genialata di Antonelli


di Ivano Barbiero


Quindicesima tappa nell'Italia "insolita e misteriosa" di Ivano Barbiero[1]. Lasciata Palermo, e i brividi vissuti nei sotterranei del Convento dei Cappuccini, il nostro viaggiatore fa ritorno a casa, a Torino. E qui ci racconta la storia di Casa Scaccabarozzi, nel quartiere Vanchiglia, nota ai torinesi come la casa dell'architetto Alessandro Antonelli, distante appena poche centinaia di metri in linea d'aria dall'edificio monumentale da lui realizzato che ha reso la città famosa nel mondo: la Mole Antonelliana.

I vecchi torinesi la chiamano familiarmente “La Fetta di Polenta”, ma in qualunque modo venga chiamata resta sempre la casa più strana e bizzarra della città, se non dell’Italia intera. Parliamo di Casa Scaccabarozzi, annoverata tra gli edifici tutelati dalla Sovrintendenza per i Beni architettonici del Piemonte, costruita a partire dal 1840 dall’architetto Alessandro Antonelli, il papà della Mole, monumento simbolo della città, e dedicata alla moglie Francesca, nobildonna originaria di Cremona.

Il palazzo si trova nel quartiere Vanchiglia, l’antico borgo del Moschino, all’angolo tra corso San Maurizio e via Giulia di Barolo dove al numero 9 c’è il portoncino d’ingresso, sovrastato da una lapide che segnala che in questo edificio abitò anche Niccolò Tommaseo, linguista, scrittore e patriota italiano. Al piano terreno si stabilì per alcuni anni anche il Caffè del Progresso, fondato agli inizi dell’Ottocento, che era originariamente collocato nel palazzo di via Vanchiglia, angolo via Verdi, in un area un tempo isolata. Questo locale, sempre progettato da Alessandro Antonelli per volere di Carlo Emanuele Birago di Vische, aveva la planimetria che ricordava lo scafo di una nave e ospitava le riunioni segrete dei carbonari.


Singolari soluzioni architettoniche

Invece, il soprannome della singolare costruzione di via Giulia di Barolo con ogni probabilità deriva dal prevalente colore giallo ocra dell’intera facciata e dalla singolarità della sua pianta trapezoidale che misura all’incirca 16 metri su via Giulia di Barolo, 4,35 metri su corso San Maurizio e appena 54 centimetri di parete dalla parte opposta a quella del corso. In questo lato oltremodo ristretto, Antonelli ha ricavato un cavedio, uno spazio tecnico a sviluppo verticale, dove ha collocato le conduttore idriche oltre che le grondaie.

La costruzione, realizzata interamente in pietra e mattoni, è alta 24 metri e consta di 7 piani fuori terra più altri due interrati, tutti ad altezze differenti. Proprio la profondità delle fondamenta conferisce all'edificio la sua enorme stabilità con un ulteriore eccezionale accorgimento: due semicerchi di pietra e mattoni, posti dal geniale costruttore piemontese alle estremità dell’ipotenusa per rendere il tutto ancor più sicuro e solido.

All’ultimo piano si nota anche una carrucola, che in origine veniva utilizzata per i traslochi e nella malaugurata eventualità di dover effettuare un funerale. Questo perché le scale, interne, sono tuttora strette, a forbice, in pietra, e risulta impossibile salirle e scenderle con dei grossi carichi. Altra singolarità: ogni singolo alloggio ha un suo bagno.

Il prospetto retrostante, opposto a via Giulia di Barolo, è invece completamente privo di finestre mentre, osservandolo dal corso, l'edificio presenta una lieve pendenza verso la via attigua.

Antonelli dedicò particolare cura ai dettagli della costruzione - chi dice che addirittura pesasse con cura maniacale i mattoni, a uno a uno - dotando il palazzo di ampie finestre e numerosi balconi; aggettanti come i cornicioni. Le finestre stesse appaiono come estroflesse. L’utilizzo di quest'espediente è una soluzione progettuale che l’architetto novarese (nato a Ghemme, il 14 luglio 1798 e deceduto a Torino, il 18 ottobre 1888) attuò per guadagnare il maggior spazio possibile all'interno del suo incredibile edificio.

Tutto ha inizio verso il 1840, quando su volere dei Marchesi di Barolo inizia l’edificazione del sobborgo che un tempo era conosciuto come il Borgo del Moschino, una zona così denominata per via delle migliaia di insetti che stazionavano vicino al fiume, in particolar modo nelle centinaia di tuguri e capanni di fortuna realizzati proprio in riva al Po e abitati dalla gente più povera e disperata.


I lavori dal 1840 al 1881

Il risanamento dell’intera zona e le nuove costruzioni vengono realizzate in prevalenza dalla Società Costruttori di Vanchiglia alla quale si aggrega anche l’architetto Antonelli, che tra l’altro progetta la sua residenza, in via Vanchiglia 9 angolo corso San Maurizio, riconoscibile per essere l’unica con i portici.

Dopo avere effettuato i vari lavori nella zona, all’Antonelli viene dato come compenso, anche il piccolo terreno sull’angolo sinistro della via dei Macelli, coincidente con l’attuale via Giulia di Barolo. Dopo il fallimento delle trattative per acquistare anche l’area confinante, il papà della Mole Antonelliana decide di costruire un edificio da reddito realizzando un appartamento per ciascun piano fuori terra, malgrado il poco spazio a disposizione, cercando di recuperare in altezza ciò che non si riesce a realizzare in larghezza.

In realtà la casa viene edificata in diverse fasi: nel 1840 vengono realizzati i primi quattro piani; alcuni anni dopo ne vengono aggiunti altri due, mentre nel 1881 viene aggiunto l’ultimo piano, al termine del quale l’Antonelli dona l’intera costruzione alla moglie, Francesca Scaccabarozzi.

I prospetti principali di questo nuovo palazzo sono caratterizzati da uno stile eclettico che coordina armonicamente le varie fasi della lavorazione; vi sono infatti decorazioni neoclassiche e lesene con rilievi geometrici ripetuti a tutt'altezza.

La vistosa cornice che si nota attualmente all’altezza del quarto piano rivela la precedente funzione di cornicione sottotetto nella prima fase di elevazione della casa. In totale sono presenti otto balconi e all'ultimo piano il ballatoio, che corre ininterrottamente lungo i prospetti delle facciate principali, è stato realizzato sulla base del cornicione del precedente tetto che risale alla seconda fase di elevazione.

L'aura risorgimentale: la lapide in memoria di Niccolò Tommaseo

In breve, l’edificio si guadagna dai torinesi l’appellativo di “Fetta di Polenta”, oltre a divenire il simbolo dell’intero quartiere. Però l’ardita costruzione trapezoidale non invoglia la gente ad abitarvi. Molti, infatti temono che la bizzarra costruzione possa crollare all’improvviso. Proprio per fugare queste voci allarmistiche, l’Antonelli decide di trasferirsi per alcuni anni con la famiglia, andando a stabilirsi all’ultimo piano.

A dispetto delle malelingue e degli jettatori, la Fetta di Polenta ha resistito magnificamente all’esplosione della regia polveriera di Borgo Dora, il 24 aprile 1852, che ha lesionato gravemente numerosi edifici della zona, è uscita indenne dal terremoto del 23 febbraio 1887, che ha danneggiato gran parte del quartiere, e non ha patito alcun danno durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale che hanno fatto crollare numerosi isolati circostanti. Nel 1974, in occasione del centenario della morte di Niccolò Tommaseo, il Comune di Torino ha posto sull’edificio la lapide in memoria del suo soggiorno, nel 1859. Tra il 1979 e il 1982 c’è stato invece un primo importante restauro della Fetta di Polenta e di una particolare decorazione dei suoi interni ad opera dell’architetto e scenografo Renzo Mongiardino che ha operato su tutti i nove piani dell’edificio.

Tra il 2007 e il 2008 gli interni sono stati radicalmente ristrutturati. E come di consueto si è ripreso a favoleggiare su questa ultracentenaria residenza che ha sempre stuzzicato la fantasia.



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