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Marco Travaglini

Una fiaba natalizia. I folletti della val Loana

di Marco Travaglini


La luce dell’alba rifletteva sui cristalli di neve colori teneri. Il silenzio che avvolgeva il paese ancora addormentato era talmente fitto che nemmeno il gallo di Fra' Bernardo, sempre puntuale a lanciare i suoi chicchiricchì dal sagrato della chiesa, aveva trovato il coraggio di cantare il suo buongiorno. Quasi tutti dormivano a Malesco. Per tutta la notte, dal cielo erano state distribuite delle generose pennellate di bianco che, a poco a poco, avevano coperto tetti, strade, alberi. Dapprima erano piccoli aghi di ghiaccio portati dal vento di tramontana che scendeva dalle vette del Gridone; poi, col passare delle ore, le pennellate si erano fatte più robuste, con fiocchi larghi che scendevano mollemente con parabole verticali. Era l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre. E il grande abete nella piazza del municipio pareva, nel chiaroscuro di quella mattina, una sentinella ghiacciata sull’attenti. Anselmo, la guardia forestale, era tra i pochi ardimentosi che erano già svegli. Doveva andare fino a Santa Maria Maggiore con il suo motocarro e non ne aveva gran voglia. Ma il dovere è dovere e laggiù, al magazzino della Forestale, erano arrivati la sera prima gli alberelli di Natale.

Li avevano mandati, come tutti gli anni, con la ferrovia Vigezzina. Come ogni anno d’inverno, era la via più sicura, evitando le strade ghiacciate. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, con uno scoppiettio, il piccolo motocarro si mise in moto e iniziò a procedere lentamente. Ad ogni curva il vecchio Ape rischiava di uscire di strada e pareva che solo gli improperi di Anselmo (che non menzioniamo, per carità) gli facessero tener dritta la rotta. Dopo quasi un’ora, tempo record per poco più di tre chilometri, Anselmo era davanti al portone del magazzino. Sbuffando e brontolando, sistemati a dovere gli alberelli ad Anselmo venne una gran sete. A quel punto fermarsi all’osteria dell’Alpino era quasi un obbligo. Nel locale, di fronte al banco della mescita, incontrò due vecchie conoscenze: il Giuanon di Finero e il Calisna di Zornasco. L’incontro mattiniero con due vecchi compagni di sbornia, con i quali aveva girato in lungo e in largo tutta Vigezzo per bere e farsi quattro salti in balera, andava festeggiato. Nessuno dei tre si faceva pregare e a turno si riempivano i bicchieri. Tornato in strada un’amara scoperta lasciò Anselmo senza fiato. Il motocarro, parcheggiato sul ciglio della via, era vuoto. La corda, tagliata, penzolava dal cassonetto. Imprecando Anselmo richiamò l’attenzione del maresciallo Zamponi. “Cosa c’è da strillare, Anselmo?”, chiese il sottufficiale dei Carabinieri, ansimando per la corsa. “Signor Maresciallo, c’è che mi hanno rubato gli alberi di Natale che dovevo portare a Malesco. Insieme, con aria da investigatore il Maresciallo, con le mani tra i capelli il disperato Anselmo, fecero un giro tutt’attorno al motocarro e videro delle tracce. Erano tante, piccole orme chiaramente visibili nella neve. Alcune leggere, altre più marcate come se qualcuno, o qualcosa, portasse dei pesi. Le seguirono con lo sguardo. Andavano via dritte, verso il bosco, all’imbocco del sentiero che saliva in Val Loana.


Il caso era strano. Chi mai aveva potuto compiere il furto? E quelle tracce misteriose? Sembravano piedi di bambini. Ma era una pazzia solo pensarlo. Bambini così piccoli, di quattro - cinque anni che, in fila indiana, si dirigevano verso il bosco portandosi a spalla degli alberelli che pesavano quasi il doppio di loro? Suvvia, non era logico. L’unica cosa da fare era seguire quelle impronte. Del resto gli alberelli dovevano essere ritrovati, ad ogni costo: chi poteva immaginare un Natale senza gli alberi addobbati di ghirlande e lucenti di palline di vetro colorato? I due si misero a camminare di buona lena. Cammina, cammina giunsero alle ultime case. Più avanti c’erano i boschi. Dopo una sosta di pochi minuti, tanto per riprendere il fiato, si avviarono sul sentiero che saliva sul fianco della montagna. Un paio d’ore dopo erano all’alpeggio di Severino che viveva lassù tutto l’anno. Ma quel giorno non c’era.

Da quel terrazzo naturale, guardando in basso, potevano scorgere le case nella piana. Piccole chiazze scure in un mare bianco. Il freddo si faceva sentire con morsi sempre più decisi. Ma Anselmo Baracca e Tarciso Zamponi erano due tipi tosti, testardi più dei muli. Salirono ancora e quasi allo scoccare del mezzogiorno, giunti in un largo spiazzo tra i larici, videro uno spettacolo incredibile. Disposti in un circolo perfetto, c’erano dei piccoli abeti che sembravano proprio gli stessi che Anselmo si era visto volatilizzare sotto il suo naso. Ad occhio, fatti due conti, tornava anche il numero: eran proprio quaranta. Si guardarono l’uno in faccia all’altro, increduli. Chi poteva aver giocato loro questo scherzo? Farli salire per la montagna fin lì per poi metter loro davanti al naso un girotondo di abetini che sembravano tenersi la mano come fanno i bambini all’asilo. Le piccole orme, evidentissime attorno al cerchio degli alberi, avevano ripreso la loro fila svoltando sulla destra per una ventina di metri e finivano nel nulla davanti ad un grande albero cavo. Avvicinatisi con cautela, girarono attorno al grande tronco. Niente di niente: le tracce finivano proprio dentro il cavo.

Tarcisio si inginocchiò e mise il naso dentro il tronco. Con grande sorpresa riuscì ad intravedere dei piccoli scalini, intagliati nel legno. Forse a questo punto, è bene lasciare i due soli con i loro dubbi e fare un salto indietro di qualche ora. Anselmo era ancora con gli amici nell’osteria a bere e cantare quando una strana e minuta figura si avvicinò con fare furtivo al motocarro. Era un omino con una lunga barba bianca che gli scendeva fino alla cintura dei pantaloni, alto poco più di mezzo metro. I suoi vestiti erano di fustagno marrone e sulla testa portava un cappellino a punta color panna. Dopo essersi guardato intorno senza scorgere anima viva, fischiò tre volte. Dal ciglio della strada comparvero, come d’incanto, altri omini come lui. Lesti come dei furetti tagliarono la corda che legava il carico di alberelli e, in quattro e quattr’otto, si caricarono sulle spalle i piccoli abeti, incamminandosi verso il bosco. Erano i folletti della Val Loana. Venivano da Cortevecchio, dalle Fornaci e dalla Testa del Mater.

Da circa novecento anni vivevano all’Alpe Cortino, dimorando in un vecchio albero cavo che consentiva l’accesso a un’ampia caverna sotterranea. Vederla illuminata alla luce fioca delle torce era uno spettacolo unico. Alle pareti brillavano quarzi, cristalli rosa e azzurrini, minerali argentati e piriti color dell’oro. In quel caleidoscopio naturale i folletti avevano costruito con pazienza il loro povero ma funzionale arredamento. La loro era una vita felice. Padroni dei boschi avevano imparato a conoscere le erbe e le loro proprietà. Avevano tutto ciò che la natura poteva offrire. Nel sottobosco raccoglievano le foglie per i loro giacigli, il biancospino selvatico e il brugo per le tisane e, quand’era stagione, facevano una gran messe di funghi, dei quali erano golosissimi. Gli animali non fuggivano spaventati come quando ne sentivano la presenza. E loro si divertivano un mondo a giocare a nascondino con gli animali. Tornando agli alberi di Natale occorre sapere anche il perché dell’ormai noto furto. Narra un’antica leggenda che, nella notte della vigilia di Natale, ogni duecento anni, i folletti disponevano quaranta giovani abeti uno a fianco all’altro fino a formare un cerchio perfetto, nel mezzo del quale viene acceso un falò con rami di larice allo scopo d’invocare per altri due secoli pace e prosperità per loro, per gli abitanti del bosco e per la gente della valle. Il rito propiziatorio consisteva nello strappare un sorriso alla serissima Signora della Laurasca, protettrice dei folletti dalla notte dei tempi. La Signora, per compensarli dell’attimo di felicità, avrebbe garantito salute e fortuna.

Intanto Anselmo e Tarcisio, la guardia forestale e il maresciallo dei carabinieri, incuriositi dalla scoperta e un poco frastornati per le emozioni della giornata, decisero di lasciare i piccoli abeti dove stavano, ripromettendosi di tornare il giorno dopo per proseguire le ricerche e cercare di venire a capo del mistero delle piccole orme e dell’albero cavo. La mattina dopo, vigilia di Natale, Anselmo dopo una notte di sonno agitato era uscito di buonora per recuperare altri quaranta alberelli direttamente alla stazione della ferrovia Vigezzina, dove erano stati sollecitamente recapitati dal comando della forestale di Domodossola. Questa volta il buon uomo non fece sosta in nessuna osteria e tirò dritto con il suo carico fino a destinazione. Consegnati gli alberi nelle case, la guardia forestale si diresse verso la caserma della Benemerita dove, ad attenderlo, c’erano il maresciallo Tarcisio Zamponi e il brigadiere Augusto Marino. Era ormai pomeriggio inoltrato quando i tre uomini, sbuffando per la salita, dopo l’ultimo strappo, si affacciarono sulla radura. Gli alberelli erano ancora lì, disposti a cerchio. E in mezzo a loro c’erano delle grandi fascine di rami di larice. Tarcisio, Anselmo e Augusto si guardarono in faccia. Era una novità perché quelle fascine il giorno prima non c’erano.

Questa volta, dopo aver confabulato tra loro, decisero di rimanere ai margini della radura, nascosti dietro agli alberi. Se qualcuno si fosse avvicinato da lì l’avrebbero visto senza farsi scoprire e forse avrebbero finalmente trovato risposta al mistero. Per non stancarsi inutilmente decisero dei turni di vedetta che però, per euforia o per la paura di lasciarsi sfuggire qualcosa, non rispettarono.

Sei occhi guardavano senza posa verso il circolo degli abeti e l’albero cavo. Passavano intanto le ore. Verso sera, al primo calar del buio, dal vecchio albero spuntò un esserino. Ci mancò poco che ad Anselmo non prendesse un colpo. Un omino vestito in maniera un po’ buffa, con una barbetta bianca che gli scendeva lunga fin sulle ginocchia, era uscito dal cavo del tronco, guardandosi attorno.. Al segnale di via libera, tutti i folletti uscirono. Il brigadiere Marino si lasciò scappare un “Ooooh…” di stupore. Ma per fortuna nessuno dei folletti lo udì, tanto erano indaffarati a trafficare attorno ai piccoli abeti. Stavano preparando, a quanto si poteva intuire, un falò. Ormai era buio e nel cielo le stelle sembrava facessero a gara per stabilire chi tra loro fosse la più luminosa. Mancavano suppergiù dieci minuti allo scoccare della mezzanotte quando uno dei folletti, salito su di un ceppo, iniziò a parlare. “Amici, il momento tanto atteso è ormai giunto. Ancora una volta invocheremo la gratitudine della Signora della Laurasca. Se riusciremo a farla sorridere con la nostra allegria, potremo vivere felici e in pace. E ora, avanti con le torce! Accendiamo il grande falò e che la festa cominci”.

Le parole furono accolte da un corale evviva e i folletti accesero un gran fuoco con i rami di larice. Pur udendo la voce non avevano capito un’acca perché il folletto aveva pronunciato il suo breve discorso nell’antico idioma dei Loanini. E non compresero, i tre sbalorditi spettatori, nemmeno il dialogo che vide protagonisti colui che aveva parlato e un altro folletto più o meno giovane che chiedeva spiegazioni sul furto degli abeti. L’altro sorrise e con calma, appoggiando le mani sulle ginocchia, iniziò a parlare. “Vedi, c’è un particolare che forse tu non conosci. Una volta gli alberelli li prendevamo da soli, scegliendo i migliori per il rito della festa. Ma già da molto tempo abbiamo pensato che forse si poteva fare di più e, prima ancora che tu nascessi, fu presa un’importante decisione. Il nostro vecchio mago, Naso di Legno, pensò che se gli alberi fossero stati procurati dagli umani, a loro insaputa, i benefici si sarebbero estesi anche a loro. Io credo sia stata una scelta giusta. Pensa a quante guerre, sofferenze, odio e dissidi che si potrebbero evitare. L’unico modo per avere quegli alberi che gli uomini hanno fatto crescere per la festa che chiamano Natale era prenderli da quello strano carro che cammina da solo. Anche se all’apparenza può esserti sembrata una brutta cosa, adesso sai che l’abbiamo fatto a fin di bene. Solo così la Signora della Laurasca penserà questa volta anche a loro”.

La guardia forestale e i due carabinieri, provati dalla fatica e dalle emozioni, si erano appisolati dopo essersi avvolti per bene nei loro cappotti.

Il ballo, intanto, proseguiva in un crescendo di salti, capriole, girotondi. I folletti saltavano come grilli e cantavano con tanta foga che la loro voce saliva dritta fino in cielo. Le chiome scure degli abeti, mosse da una leggera brezza, parevano voler fare il solletico alle stelle. Il gran fuoco, con le sue lunghe lingue rosse e arancio, aveva man mano lasciato il posto a una brace purpurea. Quanto tempo passò? Un’ora, forse due, magari solo poche decine di minuti. Sta di fatto che, quando Anselmo e Tarcisio si destarono dal loro torpore era ancora notte. Una luna lattea inondava la foresta di vivida luce. Nella radura regnava il silenzio. Si udiva solo il respiro pesante di Augusto che venne svegliato con una brusca scrollata dal suo Maresciallo. Nel  mezzo del cerchio il fuoco era spento. Degli omini non c’era traccia. Tarcisio si stropicciò gli occhi; Augusto tremava dal freddo che gli era entrato nelle ossa; Anselmo non capiva più niente. Eppure non avevano sognato, non potevano aver fatto tutti e tre lo stesso sogno. Sgranchendosi le gambe con un robusto massaggio, si alzarono in piedi e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata agli alberelli, presero la via del ritorno.

Nei pressi delle prime case del paese, incontrando Giuanon e Calisna, entrambi reduci da una nottata di bisbocce, non si fecero ripetere due volte l’invito a bere “una volta in compagnia”. Ma anche davanti al vino, così come durante il viaggio, nessuno fece parola di quanto avevano visto. Svuotati i bicchieri e salutata la compagnia, tornarono a casa, ognuno per la sua strada. L’orologio del campanile segnava le 7,30 del 25 dicembre. La mattina di Natale. Non lo potevano sapere, ma nella notte la Signora della Laurasca aveva sorriso.

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