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Marco Travaglini

Centrosinistra: cambiare perché la sconfitta non sia un destino


di Marco Travaglini


La sconfitta non ha precedenti. Per la sinistra nel suo complesso è il dato peggiore nella storia dell’Italia repubblicana. Molte ragioni del risultato sono incise nelle vicende degli ultimi tempi ma non sono solo legate alla cronaca e agli errori gravi nel campo delle alleanze, di strategia e linguaggio comunicativo. La sconfitta ha radici che affondano più lontano e che una legge elettorale assurda che nessuno ha voluto cambiare ha reso ancora più evidenti. Occorrerebbe indagare negli ultimi quindici anni (l’intero arco di vita del Pd e di un centrosinistra affannato, raramente autorevole ) e forse anche da prima.


Questo risultato interroga l’intera classe dirigente dell’ipotetico, e mai realizzato, campo largo dei progressisti. Il partito più grande, in primis. L’azione dei governi che si sono succeduti, i processi di aggregazione più volte falliti, la crisi di rappresentanza sociale e politica della sinistra nei confronti del suo popolo. Una crisi che non risparmia nessuno, al di là delle dichiarazioni in cui solitamente tutti vincono e nessuno perde mai, alla luce delle percentuali e degli esiti finali. Sono responsabilità diverse, certo. Perché c’era chi ha cercato di unire e chi no, chi ha preferito l’azzardo di una corsa solitaria e chi non è stato capace di cogliere ogni opportunità per evitare la frammentazione. Ma poiché la sinistra e i progressisti rischiano di dileguarsi, di diventare nei fatti e non a parole minoritari per scelta autolesionista , il ragionamento della rifondazione del centrosinistra riguarda tutti.


È arrivato il tempo, per tutti, di una svolta. Abbagli, limiti, ritardi, errori gravi del progetto del Pd hanno accentuato negli anni una regressione evidente. Prima di Renzi, con Renzi e dopo di lui, con Zingaretti e Letta si è parlato spesso di identità, strategia, alleanze senza mai fare una scelta coraggiosa e decisa. La sinistra però non ha perso a causa del ruolo di “protezione civile” della democrazia italiana e delle sorti del Paese, per singole riforme venute male o politiche contingenti sbagliate. Ha perso per molte vie. Una è il declino rovinoso delle soluzioni che si sono elaborate e offerte alle democrazie dell’Occidente nell’ultimo quarto di secolo.


Perde per la incapacità di restituire a valori proclamati, uguaglianza e dignità in primo piano, un legame saldo con i bisogni della parte più fragile della società. E perde, e qui il tema se si vuole è più interno alla parabola dei Democratici, per quel lungo vuoto di identità e di senso. Pensare che l’aridità degli statuti potesse colmare il venir meno di una appartenenza fondata su simboli e culture è stata una illusione drammatica. Si è tralasciata la sola cosa che andava rifondata: un pensiero attrezzato sulla società, l’economia, gli interessi. È stato innalzato a modello il primato dell'uomo solo al comando ai tempi di Renzi ( e del rapporto di fedeltà con i suoi sodali), associando quel concetto autoritario a quello di modernità.


A ben guardare, pur con profili diversi, era già stato così con Veltroni e nemmeno Bersani ne era stato immune, così come con Zingaretti e da ultimo Letta. Ovviamente con profili diversi, qualità imparagonabili, stili quasi opposti ma con uno schema che si è imposto ed è rimasto lo stesso. Con una differenza nella collegialità, aspetto che pure conta e non poco. Anche questo schema va rovesciato se si intende tornare in superficie. Per rialzarsi dalla sconfitta peggiore della storia bisogna ripensare molto. Introdurre categorie in grado di spezzare tanto l’ortodossia del vecchio laburismo socialista che i miti dell’innovazione depurati da classi, diseguaglianze e nuove miserie. Su questo si dovrà discutere davvero e non per finta.


In passato quello che è stato chiamato il “renzismo” (la combinazione della personalità e della politica di Matteo Renzi e del suo gruppo dirigente) è stato un disegno politico. Una impostazione dalla quale più di un iscritto, militante, dirigente hanno espresso le ragioni di una presa di distanza e di severa critica. Gran parte dei vertici, di partito e istituzionali, invece, sono migrati da una posizione all’altra, da una stagione a quella successiva, con i segretari che venivano cambiati lasciando i quadri intermedi a ogni livello pressoché immutati. Quel vecchio disegno politico venne sconfitto il 4 marzo del 2018. E già allora a sinistra il ricambio necessario di una leadership e una classe dirigente non era solo dettato da una percentuale bassa e deludente nelle urne. Doveva essere la risposta a quel giudizio politico.


Oggi non è diverso e, anzi, è ancora più urgente ed evidente la necessità di rifondare un progetto, un impianto programmatico, una lucida e leggibile scala di valori. E costruirla sul serio, con altri, un’alternativa progressista e democratica che possa fare l’opposizione al centrodestra a trazione meloniana, riguadagnando rapporti e fiducia con il paese reale. Toccherà farlo perché dalle grandi crisi, e il secolo breve lo ha dimostrato, non si esce col mondo di prima. Soprattutto ora in tempi di conflitti, crisi energetiche e incertezze economiche e sociali. Servono analisi e ricette in larga misura sconosciute. Lo stesso vale per le grandi sconfitte. Bisognerà rifondare una teoria e una pratica. Programmi, alleanze sociali, i riferimenti nel mondo.


Il centro sinistra e il Pd hanno perso, ma questa è la realtà di oggi. Sarà indispensabile raccogliere tutte le opposizioni attorno a un tavolo e ragionare seriamente sul futuro, ascoltando, cercando i punti in comune, le cose che uniscono con umiltà, decisioni e responsabilità collettiva. È l’unico modo per dimostrare che la sconfitta non può essere un destino e che è interesse di tutti costruire le premesse di un confronto e di un clima positivo per il centrosinistra e i progressisti. Servono persone nuove, idee nuove, linguaggi chiari, comprensibili e un clima positivo. Facciamo tesoro di quanto scrisse Italo Calvino: “D’ogni intesa politica, temporanea o duratura che sia, quello che conta è il clima, cioè le energie morali che mette in moto”.

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