Un libro per voi: "Resistere al fascismo" di Piero Gobetti
di Piera Egidi Bouchard
Alle volte un semplice florilegio di pagine autentiche, una scelta oculata di un anche immane lavoro – come quello che Piero Gobetti attuò nella sua “breve esistenza” – può essere istruttivo per un primo approccio , stimolante a maggiori successivi approfondimenti. E’ questa la direzione attuata da Paolo Di Paolo nel suo tascabile di neanche cento pagine[1], che raccoglie alcune delle riflessioni più essenziali di quel precoce e grande genio che fu Piero Gobetti. Perché in quegli anni Venti a Torino operarono due geni, Antonio Gramsci e Gobetti, che segnarono la storia politica e culturale – direi anche morale – fino ad oggi, e operarono anche insieme, da angolature diverse, ma con reciproca stima.
"Gobetti non ha ancora compiuto ventun anni quando fonda - il 12 febbraio del 1922– “La Rivoluzione Liberale”- scrive Di Paolo nella prefazione - e morirà venticinquenne a Parigi, in volontario esilio, dopo le persecuzioni , i sequestri e le botte che gli riserverà il fascismo: famoso è il telegramma di Mussolini al prefetto di Torino dopo il caso Matteotti, chiedendo di rendere “impossibile la vita a questo insulso oppositore di governo e del fascismo.” E infatti la resero impossibile, a lui e alla giovane moglie Ada - che collaborava da sempre in tutta l’attività redazionale - tanto da far chiudere la rivista nell’autunno del ’25. E obbligarli a continuare il lavoro con un’altra, fondata già un anno prima, più letteraria, “Il Baretti”, in cui si dovrà leggere tra le righe, perché – scrive Gobetti – “la libertà d’opinione è stata soppressa come una rete che viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere sopraffatto".
La poesia della moglie Ada
E intanto la giovane sposa è incinta, e il figlio Paolo, nato di lì a pochi mesi, non potrà conoscere il padre: “Nell’ora che tu sei partito – scrive Ada il 2 febbraio del ’26, nelle pagine finali del suo Diario – una nevicata fitta, bianca, improvvisa. Quasi avesse voluto, gelida e chiara, irrigidire un poco lo strazio della separazione”[2]. E’ la nevicata sotto cui Gobetti parte verso l’esilio, e la strada che percorre nella città silenziosa, una Torino descritta nei suoi nomi, nei suoi monumenti, nella sua storia, è rievocata dal commovente iter di addio che Bruno Quaranta ricostruisce nel suo libro[3].
”Anche tu hai sofferto, lasciandomi – annota Ada - tremavano anche nei tuoi occhi le lagrime, quando hai rialzato il capo dopo aver baciato la fronte del piccolo che dormiva queto con le manine aperte e tese come a un saluto. Mi hai stretta al cuore appassionatamente, ma poiché un poco tremavo e non sapevo dominare l’angoscia mi hai detto: ‘Non turbarti: il bambino non deve soffrire. Verrai presto anche tu e saremo tanto felici. Ma se ora piangi, come posso partire sereno?“ Il 16 febbraio, alla notizia della morte a Parigi, è il grido straziato di Ada, che si trasforma in angoscianti versi: “Non è possibile./ Non deve essere possibile./
Non pensare, non pensare, non impazzire. / Il bambino non deve soffrire, non deve piangere cercando inutilmente il suo latte. / Tutta la vita ti resta per piangere, per soffrire. / Ma ora devi pensare a suo figlio.”
Non si può disgiungere Piero da Ada - anche se la vita di lei sarà ancora lunga e fattiva[4], parteciperà alla Resistenza, sarà la prima donna vicesindaco a Torino, sarà giornalista e pedagogista, si risposerà, fonderà e dirigerà il “Giornale dei genitori”, fonderà con altri amici il Centro Gobetti, che ha sede proprio nella casa abitata da loro giovani sposi, in via Fabro 6 - visitabile - e che dall’autunno scorso ha dedicato moltissime attività e convegni al centenario de “La Rivoluzione Liberale”. Ed ora, quest’anno il Centro ricorda il centenario della fondazione della casa editrice di Gobetti “di opposizione e di avanguardia”, una vera miniera, ripubblicando i “pochi fogli frammentari” raccolti ed editi da Franco Antonicelli nel 1966 con il titolo “L’editore ideale”, presentandolo anche alla Fiera del Libro .
Giunge tempestivamente, perciò – in questi anni necessariamente gobettiani – l’ agile libro in cui Paolo Di Paolo offre un primo, ma fondamentale approccio a un pubblico non specialistico, alle giovani generazioni che magari hanno sentito citare il nome solo sul manuale scolastico, e non sanno nulla del suo pensiero, della sua vita, della sua battaglia strenua contro l’affermarsi della dittatura fascista. Basterebbe anche solo meditare lo splendido saggio biografico su Giacomo Matteotti, edito col solito intransigente coraggio da Gobetti dopo l’assassinio, che titola l’ultimo paragrafo “Il volontario della morte”: “Egli rimane l’uomo che sapeva dare l’esempio. Era un ingegno politico quadrato, sicuro(...) Perché la generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa – conclude profeticamente – dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta.”.
Antifascismo etico
Sì, perché il liberale Gobetti (che parlava però di una rivoluzione, liberale nel senso “che si libera”, che è liberante), vedeva nella gramsciana Torino dei consigli di fabbrica, nel movimento operaio organizzato, la forza che avrebbe potuto operare il cambiamento: ”Esiste in Italia del Nord, specialmente nel triangolo Genova- Torino-Milano, un proletariato moderno. (...) Bisogna vedere da vicino, come io vedo qui, alla Fiat, la tenacia di questo proletariato. Bisogna rendergli onore. Con la sua intransigenza esso ha conquistato i suoi diritti civili, è degno degli altri proletariati europei; le sue battaglie e i suoi sacrifici gli segnano il suo posto di dignità nell’Europa lavoratrice di domani.” E ancora: “Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo. (...) Mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia ideale del secolo. Allora il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione oggi si pone in tutto il suo carattere religioso”.
E anche qui il termine “religione”, che Gobetti usa spesso, non si riferisce a nessuna istituzione, ma indica una profonda fede etica, intransigente e priva di compromessi, come troviamo nel famoso saggio “Il nostro protestantismo”: “Ecco – scrive – in qual senso il problema politico italiano, tra gli opportunismi e la caccia sfrontata agli impieghi e l’abdicazione di fronte alle classi dominanti, è un problema morale.”
Il suo è un “antifascismo etico” che proclama: “Un’opposizione senza illusioni e senza ottimismi; ma chi è scettico in altro modo, chi si professa apolitico, non è soltanto un letterato o un retore, è un disertore, un complice del regime.” In questo condividendo con Gramsci quel famoso appello - al centro di una battaglia politica, che era anche etica e costò a Gramsci il carcere fino alla morte - “odio gli indifferenti”.
Perché l’analisi e la profonda preoccupazione di ambedue era la storia e la psicologia di massa del nostro Paese, la pigrizia, il qualunquismo, l’opportunismo, l‘acquiescenza ai poteri forti, quel “Franza o Spagna purché se magna” che aveva permesso il fascismo, quello che con fulminante geniale sintesi Gobetti definì la “Autobiografia della nazione”.
Note
[1] Piero Gobetti "Resistere al fascismo” a cura di Paolo di Paolo, Garzanti, 2023
[2] Ersilia Alessandrone Perona, “Nella tua breve esistenza- Lettere 1918-1926"
[3] Bruno Quaranta, “Le nevi di Gobetti”, Passigli, 2020
[4] Emmanuela Banfo, Piera Egidi Bouchard, prefazione di Giorgio Bouchard , “Ada Gobetti e i suoi cinque talenti”,Claudiamna,2014
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