Un libro per voi: "Olive nere, immigrati per sempre"
a cura di Stefano Garzaro
Nel febbraio 1956, nelle campagne di Partinico, il pacifista Danilo Dolci (1924-1997) e un gruppo di braccianti vengono bloccati e arrestati dalla polizia di Tambroni mentre costruiscono una strada non autorizzata. Quel passaggio per il paese è indispensabile, ma nessuna amministrazione se ne vuole occupare, e così la popolazione fa da sé. È lo sciopero alla rovescia – come dichiarerà Dolci al processo – poiché «il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della Costituzione è un dovere» [1].
È scontro sull’idea di legalità: lo spirito della Costituzione contro l’autoritarismo gerarchico e burocratico, eredità di un fascismo non ancora morto.
Nel Mezzogiorno è l’ultima stagione delle grandi lotte, poiché è ormai partita la grande migrazione verso le fabbriche di Milano e Torino, dove i contadini si trasformano in operai. Sono migliaia di giovani, ricchi di idee e fantasia, che vivono lo sbarco sul nuovo pianeta in modo tutt’altro che passivo. Gomito a gomito alla catena di montaggio, apprendono a tappe forzate gli elementi fondamentali delle scienze economiche e, assieme alla nobiltà operaia del nord, erede dei consigli di fabbrica gramsciani e degli scioperi contro il nazifascismo, creano un sindacato nuovo. Sarà il decennio di riforme e di crescita democratica più intenso del dopoguerra, che frantumerà l’assedio alla giovane Costituzione imposto della Guerra fredda, e costituirà un argine ai successivi assalti degli anni di piombo.
Oggi quegli operai – ormai pensionati – si chiedono: e se allora fossimo rimasti a casa, a lottare per il nostro sud? Se non avessimo esportato la nostra rabbia solidale alla Fiat e alla Pirelli, dove ci troveremmo oggi? La risposta forse può venire da una conversazione raccolta dietro le quinte fra due di quei pensionati, protagonisti negli anni Sessanta di quelle trasformazioni. Non si tratta di pensionati qualsiasi, ma di Vito Montrone, pugliese della Daunia, per anni responsabile della formazione della Cgil provinciale di Torino, e di Rocco Larizza, calabrese dell’Aspromonte, elemento di punta del Partito comunista che dalla fabbrica di Mirafiori portò le sue istanze fino ai banchi del Senato.
L’occasione del dibattito è l’uscita di un libro, Olive nere, opera di Vito Montrone [2]. L’autore, a differenza dei suoi precedenti saggi di economia del lavoro, non scrive con il registro del saggio, ma del diario aperto: racconta infatti la migrazione della propria famiglia, simile a migliaia di altre storie, ma con forti elementi di originalità.
A Sant’Agata di Puglia i Montrone nel dopoguerra godono di stima generale e di condizioni economiche invidiabili: il giovane Michele – futuro padre dell’autore – è un appassionato di elettronica che apre un laboratorio radio-tv e si lancia nella gestione del cinematografo del paese. Entrambe le attività prosperano e attirano frotte di clienti e spettatori. Non manca infine il bel matrimonio di Michele con Carolina, la figlia del medico più stimato. Ma ecco la tempesta, con il nord industriale in pieno sviluppo economico e il sud agricolo a picco. Nelle botteghe di Sant’Agata e nel cinematografo entrano sempre meno clienti. Comincia la grande fuga, il paese si svuota.
La famiglia Montrone, con i bimbi giunti nel frattempo, resiste finché può, ma poi anch’essa viene trascinata dalla corrente – un viaggio in treno di un’intera giornata – per essere scaricata a Millefonti, nella periferia di Torino tra il Lingotto e il Po. L’esodo non coinvolge la famiglia intera, poiché Carolina, che insegna Lettere nel Foggiano, non riesce a ottenere il trasferimento. Sono tempi duri per Michele e i bimbi, perché il contorno di zie e nonne non basta a supplire alla mancanza della madre. Ma non ci si arrende a quel destino, e nasce una strana intesa umanitaria nord-sud che vede da una parte il maresciallo dei carabinieri di Millefonti e il parroco del Lingotto, dall’altra i corrispettivi pugliesi impegnati a certificare i buoni costumi e la laboriosità della famiglia Montrone, per smuovere il gigante cieco della burocrazia e permettere il ricongiungimento degli affetti. È un patto umanitario non scontato, perché a Torino in quegli stessi giorni si sviluppano ben altre indagini, quelle di altri parroci che certificano all’Ufficio personale Fiat che i vari Salvo e Peppino non sono né comunisti né teste calde, e quindi possono essere inseriti nelle liste di assunzione.
Dal paradiso terrestre di Sant’Agata la famiglia Montrone è sbarcata a Torino in un pianterreno umido e senza luce, transito di scarafaggi, tana di topi giganteschi che a ogni visita di amici occorre mettere in fuga con una rumorosa processione di coperchi sbattuti.
Michele, come tutte le persone del sud, deve poi fare i conti con le etichette che i buoni piemontesi appiccicano ai nuovi arrivati, i Napuli: se ti definiscono un bravo lavoratore nonostante tu sia terrone, non puoi che esserne compiaciuto. Michele non si scoraggia, s’ingegna a cercare lavoro. La sua competenza elettronica lo aiuta a trovare impiego in una ditta che ripara le centraline di comando dei mezzi corazzati dell’Esercito. La sera arrotonda presso il cinema Cabiria, grazie al patentino di proiezionista conseguito a Foggia.
Il giovane tecnico, entusiasta del proprio lavoro, insiste nell’aggiornarsi da sé. In fabbrica, un giorno individua un guasto che fa impazzire l’intera officina. Attorniato dai colleghi curiosi di conoscere la sua soluzione, Michele vede avvicinarsi al capannello il capo in persona. Ne segue un fuggi fuggi, con gli operai allarmati di essere marchiati come perditempo. Poco dopo Michele è convocato nell’ufficio del capo. Il giovane si pulisce le mani in uno straccio e si avvia al gabbiotto con il cuore pesante, pronto ad ascoltare una dichiarazione di licenziamento. Un meridionale come lui, senza protezioni, può saltare da un momento all’altro. «Venga, signor Michele, si sieda» lo accoglie il capo, che prosegue: «Complimenti! La ringrazio a nome della società. Lei sa che il reparto elettricisti non ha un vero responsabile. Ho notato che i suoi colleghi le sono sempre intorno consapevoli di poter condividere il suo sapere, per cui le propongo di accettare la promozione. E poi, signor Michele, possiamo evitare di chiamarci signor qui e signor là, magari rivolgendoci all’uno e all’altro come buoni cristiani?».
Lo sconcerto del giovane è enorme: dal giorno seguente, grazie al nuovo ruolo, potrà presentarsi al lavoro con la cravatta. Ma – ancor più importante – tra il capo e l’operaio si sviluppa un’amicizia che si estende presto alle due famiglie. Perché nel frattempo mamma Carolina è riuscita a raggiungere Torino, con una cattedra alla scuola Re Umberto di piazza Bengasi. Ciò permette anche di abbandonare la topaia di Millefonti per un alloggio luminoso di nuova costruzione, a pochi passi dal parco di Italia 61. Quando poi si apre lo spiraglio di un ritorno al sud, Michele e Carolina si consultano: «No, restiamo qui, ormai siamo torinesi, immigrati per sempre». Michele, addirittura, riuscirà a diventare responsabile del proprio lavoro, aprendo un laboratorio di riparazioni radio-tv accanto ai nuovi prestigiosi palazzi dell’Orsa Maggiore, di fronte al Po. Ed eccoli, i torinesi di nuova generazione in piena attività, pronti a saltare il pranzo per una consegna urgente, ma con un piatto di olive nere sempre a portata di mano.
Oggi Vito e Rocco confrontano le loro giornate di ragazzi immigrati, rivivendo gli episodi raccolti nelle pagine del libro, a iniziare dalla scoperta della lotta politica: passando davanti ai cancelli della Fiat mentre va a scuola, Vito osserva gli operai in sciopero lanciare monetine ai crumiri. Tornerà ai cancelli la sera per raccogliere quegli spiccioli da destinare all’album delle figurine, ma intanto si chiede perché lo sciopero e perché i crumiri. Scopre anche la distanza fra le culture, quando un pomeriggio in drogheria chiede un pacco di ciròcili, le candele: la commessa al banco non comprende e lo rimanda indietro.
«Rocco, sai quanti soldi noi terroni abbiamo lasciato ai bottegai piemontesi in anni e anni di spesa? Eppure loro insistevano a parlarci in torinese. Se non capivamo, peggio per noi. Mai che si sforzassero di farci sentire meno stranieri. Meno terroni».
Rocco, che viene dall’Aspromonte, da bambino lesse in Cuore di De Amicis la scena dell’accoglienza amorevole riservata a Coraci, il piccolo calabrese giunto in classe a scuola iniziata. La realtà, per Rocco, fu assai diversa. Lo presero in giro persino quando scoprì la nebbia: per il piccolo, quel mondo che si dissolveva fu un momento di terrore, che lo portò a strofinarsi gli occhi con furia convinto di diventare cieco. Rocco Larizza ricorda i pregiudizi con cui dovette fare i conti persino nel partito, quando nella sede della federazione comunista torinese la lingua corrente della nobiltà operaia era il piemontese stretto.
«Che ne sapevano i piemontesi della fatica di noi terroni per conquistarci il diritto di esserci?». Non bastava infatti trovare lavoro, ma ogni giorno occorreva dimostrare di meritare quel posto, di far sentire che la propria presenza era indispensabile. «E senza di noi terroni, senza la nostra compattezza, il sindacato e il partito avrebbe raggiunto le stesse conquiste?».
Ecco, ritorniamo alla domanda inziale: è valsa la pena essere emigranti per sempre? Oggi, però, quella domanda è superata da un’altra ben più sconcertante: che cosa pensare di quegli ex immigrati che respingono con rancore chi viene da fuori, da lontano? Ah, chissà come reagirebbe Gramsci.
Note
[1] Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio 2011.
[2] Vito Montrone, Olive nere. Immigrati per sempre, Impremix 2024 (150 pagine, 14 euro).
Comments