Un libro per voi: "Aqua e Tera"
a cura di Maria Grazia Cavallo
L’ultimo lavoro di Dario Franceschini Aqua e Tera (La nave di Teseo Editore) racconta un affascinante intreccio di verità e fantasia, di grande storia con la maiuscola - coi suoi drammi politici e sociali - e anche di vita quotidiana della gente comune e di sentimenti d’amore delicati , da preservare e proteggere dalla violenza.
La ricchezza delle vicende narrate consente varie prospettive di lettura di questo romanzo a diversi livelli, per le differenti tematiche che tratta. La prosa è asciutta, non compiacente, antiretorica; l’elegante essenzialità del testo ne valorizza la potenza evocativa. Riteniamo dunque perfetta la definizione di “realismo magico” con cui è stato descritto lo stile dell’autore.
Franceschini spiega che “tutti i fatti narrati sono realmente accaduti, tranne qualcuno”. E noi percepiamo che anche quelli inventati sono comunque verosimili, perché raccontano situazioni che riguardano il nostro passato prossimo, ci coinvolgono, ci impegnano a riflettere anche oggi.
Un affresco storico
“Non potete far mangiare a questi bambini solo polenta, gli viene la pellagra”, l’aveva messa in guardia il medico anni prima , ma lei non aveva potuto fare altrimenti .“Dutòr” gli aveva risposto Ginisca “chi a ghè sol aqua e tera”.
Questo è certamente un romanzo storico, per la precisione e l’accuratezza degli elementi reali che inquadrano le vicende dei protagonisti. Del resto Franceschini aveva pubblicato nel 1985 un saggio su cattolici, socialisti e fascisti nell’Emilia Romagna di Don Minzoni e di Balbo, che è anche la sua. E ad Aqua e Tera va riconosciuto il merito di illuminare quanto avvenne attorno a Ferrara fra Ottocento e la metà del secolo successivo, contribuendo a salvarne il ricordo.
La narrazione comincia dunque da molto lontano e abbraccia settanta anni di vita quotidiana nella bassa ferrarese: fino alla nascita e alla caduta del fascismo. Si apre con l’affresco delle condizioni dei proletari quando il governo nazionale - all’indomani della recente Unità - decise di intraprendere un colossale progetto di bonifica di quelle terre paludose, circondate da “acque malsane e stagnanti, popolate da zanzare che portavano ovunque le febbri della malaria” .
Quando si faceva l'Italia, letteralmente
Nel 1874, a Baura, l'Italia la si costruiva con la forza e la disperata dignità degli operai che arrivavano da ogni dove per lavorare alle bonifiche, per trovare il pane per i figli. Braccianti e fiocinini, diventavano così scariolanti che strappavano terra alle acque paludose e malariche. Palmo a palmo, zolla a zolla. Con le gambe e le mani negli acquitrini, riempivano di fanghi “file di carriole interminabili, che scendevano e risalivano lungo assi di legno poggiate per terra” per non sprofondare nella melma. E così, senza sosta, per tutti i giorni e per anni. Con la speranza e la promessa dell’assegnazione di quelle terre che avrebbero recuperato dalle paludi.
Ma quando le bonifiche furono completate, non ci fu più lavoro per loro. Negli ultimi anni di quel secolo, cominciò così una forte emigrazione verso l’America. E, per chi restava, il miserabile lavoro nei maceri di canapa, fame, disperazione, drammatiche tensioni sociali.
Nei primi anni del Novecento, la stagione dei grandi scioperi dei braccianti, la repressione durissima macchiata del sangue dei manifestanti (struggente l’immagine dei militari che “sparavano intenzionalmente in aria, per non colpire le persone, mentre l'ufficiale cercava di abbassare le canne dei fucili”). E ancora quel “gigantesco” progetto di solidarietà, fra poveri: in milleduecento furono i bambini che “lasciarono le loro case per sfuggire alla fame” e vennero ospitati da altre famiglie di operai e contadini, fino alla fine degli scioperi (“Un poc più ad fam nuàltar, un bel poc ad men chi pòvar putìn”, spiega un padre ai suoi figli, che sono attorno al desco con i bambini ospitati).
Poi la grande guerra: “gli uomini chiamati a morire per una patria che non sapevano nemmeno cosa fosse, tenuti a combattere con la promessa della terra ai contadini”. Era soltanto una promessa, forse un’illusione: “ma loro preferivano crederci, perché con quella speranza nella testa riuscivano a sopportare meglio la neve e il gelo e, nelle notti prima dell’attacco, si raccontavano di cosa avrebbero coltivato nei campi e che bestie avrebbero tenuto nelle stalle”.
“Un concentrato esplosivo di delusione e di rabbia"
Questo divennero, alla fine della guerra, le campagne ferraresi: “che di terra, a contadini e braccianti, non si parlava più”. E poi i fermenti sindacali, l’attivismo delle leghe socialiste - che per qualche anno avevano trovato un consenso che sembrava radicatissimo fra la gente - le lotte dei proletari “in condizione di disperata povertà” contro un nascente, inarginabile squadrismo fascista.
Quest’ultimo fenomeno, dapprima tollerato e poi anche foraggiato dalla borghesia agraria - attenta alla conservazione dei propri privilegi - si esprimeva in un crescendo di violenze ed incursioni omicidiarie nelle campagne contro gli oppositori. “Incendi, saccheggi, revolverate, morti e feriti. Fu subito chiaro che si trattava soltanto dell’inizio. Gli agrari non avrebbero fermato spedizioni e violenze fino alla totale distruzione delle leghe rosse e di ogni organizzazione dei lavoratori. Le squadre fasciste arrivarono ovunque, seminando terrore”. Dapprima contro i socialisti, poi - in rapida successione - anche contro le leghe bianche e gli esponenti della cultura cattolica. In proposito, Franceschini cita la coraggiosa risposta di Don Minzoni a un gerarca: “io rispondo soltanto al Papa”. Nelle città, i fascisti di Balbo si esibivano in ostentazioni di retorica violenta e tale esibizionismo muscolare raggiunse l’apice il giorno in cui Mussolini giunse a Ferrara per pronunciare un discorso. Era il 4 aprile del 1921.
Una storia d'amore da proteggere
Proprio in quel giorno esplodeva il sentimento d’amore inarrestabile fra due ragazze bellissime: Tina Barilari, figlia di un capo fascista e sorella di squadristi, e Lucia, figlia di Milvano Calegari, duro e intransigente capolega socialista di Baura. Le giovani erano nel giardino della Marfisa, a Ferrara, quando “Mussolini gridava: … qui o popolo di Ferrara è il tuo avvenire… Gridava, ma Tina e Lucia non lo sentivano più”.
Tina abitava con la famiglia a fianco di quel giardino di alberi secolari su cui si affacciava anche l’abitazione dell’avvocato socialista Fortini. Questi, con la sua famiglia, le aveva offerto ospitalità per proteggerla dalla violenza squadrista che aveva preso di mira i suoi parenti.
L’amore fra le ragazze era doppiamente proibito: sia perché le loro famiglie erano radicalmente nemiche per scelte ideologiche, sia perché - a quell’epoca - di amore saffico non si poteva neppure parlare: era considerato malattia e inaccettabile perversione. Anche per Tina e Lucia, quell’imprevisto sentimento - che vivevano come naturale, istintivo e puro - era stata una scoperta. Ne conoscevano la forza, nel loro reciproco rapporto; ma al contempo ne temevano la fragilità rispetto all’esterno, alla società di quei tempi. Sentivano di doverlo proteggere con pudore e timore.
Splendide protagoniste
E’ questa la storia d’amore proibito che si snoda lungo quelle vicende storiche e che non potrebbe esser compresa appieno, se non immaginata in tale contesto.
Di questa parte della narrazione - che è quasi un romanzo nel romanzo - sono protagoniste donne forti, che sanno fare scelte drammatiche e coraggiose. A cominciare dalla carismatica Ginisca, capace di rivendicare, per le donne, il diritto all’istruzione e alla parità con gli uomini. Ginisca è lavandaia, ma sa leggere e scrivere; cura l’educazione della nipotina Lucia, le trasmette idee progressiste. Sceglie di portarla, fin da bambina, alle riunioni femminili dove assieme alle compagne cominciava a costruire una consapevolezza politica e di genere. Tutte le donne della narrazione - in modo diverso e ognuna per la sua parte - sono orientate al futuro.
Si dimostrano più “avanti” rispetto ai loro tempi e anche rispetto agli uomini: i quali, pur divisi in politica, sono però uniti e condizionati - anche i più progressisti fra loro - da pregiudizi culturali. Diversamente le donne: capaci di accogliere la vita, di comprenderla con saggezza, spirito di sorellanza e buon senso pratico; di determinarsi ad agire coerentemente alle loro idee. Senza esitazioni, al momento giusto, pagando il prezzo del coraggio.
Attorno a queste personalità indimenticabili, un insieme di menti illuminate: a cominciare dall’avvocato Fortini e da sua moglie Angiolina, che nella loro splendida villa ospitano Lucia, ricevono esponenti socialisti, tengono rapporti e un dialogo costante con Don Minzoni, sostengono l’impegno di Matteotti, agiscono comunque a protezione delle persone più deboli. Nell’immagine e nell’agire dell’avvocato, Franceschini rievoca il nonno, che abitava proprio in quella casa descritta dal romanzo, di Corso Giovecca, dove è cresciuto con i genitori Gardenia e Giorgio.
Dunque, un chiaroscuro di luce e di oscurantismo, di sguardo fiducioso al “sol dell’avvenire” nel drammatico contrasto alla più dannosa e retrograda conservazione: c’è questa netta distinzione in Aqua e Tera, oltre all’intento didascalico e a tanta poesia, trattenuta con elegante pudore. Un romanzo che meriterebbe attenzione anche nei percorsi scolastici.
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