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Tutti a casa, ma l’Afghanistan rimane lo snodo del terrorismo

di Michele Ruggiero |

David Howell Petraeus, il generale statunitense a capo delle operazioni militari Usa in Afghanistan dal 2010 al 2011, l’aveva predetto: la strategia delle armi del mondo occidentale presenta troppe falle ed è destinata a girare a vuoto. In altre parole: i talebani vinceranno e la loro cultura si imporrà sull’intero territorio mediorientale da cui l’estremismo radicale islamico attinge militanti e recluta combattenti. A dieci anni dall’uscita di scena dello stesso generale Petraeus, travolto nel 2012 dallo scandalo che lo vedeva da capo della Cia al centro di una relazione clandestina con la sua biografa, la “profezia” si è rivelata esatta. L’esercito più potente del mondo, insieme ai suoi alleati Nato, si ritira e lascia campo aperto ai talebani. Una decisione destinata ad amplificare la potenza di fuoco (già consistente) del terrorismo islamico per commettere stragi, rappresaglie e menomare il potere del governo legale. Secondo le cifre rese pubbliche da Unama, la missione dell’Onu a Kabul, nei primi tre mesi dell’anno si sono registrati in Afghanistan 573 morti e 1.210 feriti (cfr. il manifesto 9 giugno 2021), cioè 6 morti e più del doppio di feriti al giorno. Numeri che mostrano come la fabbrica del terrore sia operativa a ciclo continuo e con essa l’attività di pressione culturale e politica sulla popolazione inerme esercitata dal radicalismo islamico che, di riflesso, rafforza e nutre l’opera di proselitismo, sempre meno contrastata. Ammainata la bandiera italiana a Herat, il nostro contingente militare ritorna a casa. E presto sarà seguito dalle truppe americane. Cui prodest? Domanda retorica. Gli analisti internazionali conoscono a memoria la risposta, come la conosce perfettamente il presidente Usa Joe Biden e i capi di governo dell’Occidente: se ne gioverà l’Al Quaeda di turno, lo Stato Islamico, le numerose periferie del terrorismo, che riceveranno dai talebani in dote la nuova “vittoria politica” con l’abituale e copiosa innaffiata di denaro che proviene dal traffico di oppio sui cui i fondamentalisti afghani fondano anche il loro consenso. Nel 1989, dopo dieci anni di occupazione, l’Armata Rossa sovietica si ritirava sconfitta e dissanguata umanamente ed economicamente dalla precisione chirurgica degli Stinger e dai missili anticarro forniti ai talebani dagli Stati Uniti, con la copertura di altri Paesi alleati della Casa Bianca. Si trattò di una “guerra segreta” costata milioni e milioni di dollari ai contribuenti americani, che rimase però fine a se stessa, finalizzata unicamente alla disgregazione dell’Impero del Male, secondo la dottrina del presidente americano dell’epoca Ronald Reagan. Regolati i conti con l’Unione Sovietica di Gorbaciov, l’Occidente rigirò nuovamente le spalle ai bisogni della società afghana, senza prestare attenzione alle sue regole e costumi, con la nefasta conseguenza di mutilarne le prospettive di cambiamento sotto il profilo culturale. Fu un’afasia politica che Stati Uniti e Occidente hanno pagato a stretto giro di posta, ma con un sovrapprezzo tragico e pesante: il terrorismo dell’11 Settembre 2001, con l’attentato alle Torri gemelle. Ora, il rischio è di ripetere come in un loop quello schema e di ritrovarsi nuovamente in caduta libera nell’abisso del terrore.

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