Trump ha vinto, ma il potere rimane sempre nelle mani delle oligarchie... "liberali"
di Stefano Marengo
“Sono stanco di sentire che queste sono le più importanti elezioni della nostra vita. La realtà è che il loro risultato non ha alcuna importanza. Noi lavoriamo con entrambi i candidati”. A formulare questo giudizio, ripreso dal Financial Times lo scorso 21 ottobre, è stato nientemeno che Larry Fink, fondatore e CEO di BlackRock, la più grande società di investimenti del mondo, con un patrimonio stimato di oltre 11mila miliardi di dollari.
Basterebbero queste parole per inquadrare premesse ed esiti delle ultime presidenziali americane. Fink, infatti, ha voluto chiarire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il cuore del potere USA non si trova alla Casa Bianca, ma nei circoli di una selezionatissima oligarchia capitalista che comprende, insieme a pochi altri, i vertici della grande finanza, delle Big Tech, dell’industria degli idrocarburi, di quella militare e di quella farmaceutica. Sono queste élites che, attraverso un articolato sistema di lobby, controllano e indirizzano l’attività legislativa statunitense e, a monte, finanziano le campagne elettorali a suon di centinaia di milioni di dollari.
La loro capacità di condizionamento è tale che bisognerebbe chiedersi seriamente se la democrazia americana non sia stata ormai ridotta al suo involucro puramente formale, dal momento che a raggiungere i vertici del potere politico sono sempre e solo quei candidati che, preliminarmente, aderiscono all’agenda delle big corporation.
Con una sorta di imprevedibile cortocircuito intellettuale, dietro le dichiarazioni di Fink sembra quasi di leggere le parole del giovane Marx, che a metà dell’Ottocento descriveva i governi come “comitati d’affari” che amministrano gli interessi comuni della borghesia. Ecco dunque il motivo per il quale l’esito delle presidenziali, per le élites del potere, non aveva alcuna importanza: Trump e Harris non hanno mai inteso incarnare visioni del mondo alternative, ma si sono limitati a proporre approcci tattici differenti al medesimo programma strategico, o, se si vuole, sono state variazioni sul medesimo tema, ossia appunto la difesa degli interessi delle oligarchie capitaliste. In altre parole, le élites hanno preliminarmente delimitato il campo da gioco elettorale e selezionato i candidati eleggibili, lasciando poi formalmente ai cittadini e al loro “libero voto” il compito decidere il nome del nuovo presidente.
In quest’ottica è del tutto fuori luogo intendere la sfida Trump-Harris come uno scontro quasi apocalittico tra irrazionalità e razionalità. Qualunque fosse stato il risultato delle urne, infatti, esso avrebbe comunque risposto ad un calcolo preciso ed estremamente razionale delle oligarchie economico-finanziarie. Oggi, quindi, non c’è ragione di credere che Trump alla Casa Bianca costituirà un fattore di destabilizzazione dell’ordine esistente. Semmai – ma questo è tutt’altro paio di maniche – The Donald sarà un elemento di continuità in un’epoca di crisi che per gli USA ha avuto inizio almeno con il crack di Wall Street del 2007-2008 e che si è tradotta nella sempre più accentuata perdita di egemonia mondiale di ciò che è stato considerato l’Impero americano.
Sicuramente da Trump ci si potrà attendere misure molto conservatrici, se non scopertamente reazionarie, per quanto concerne la tutela dell’ambiente e i diritti civili, ossia temi che, nella migliore delle ipotesi, lasciano indifferenti i circoli oligarchici, ma sono in grado di provocare profonde fratture e conflitti all’interno della società. È quindi solo ed esclusivamente in questo senso che ci si può chiedere perché gli americani abbiano preferito Trump alla Harris, una domanda a cui possono essere fornite essenzialmente due risposte.
La prima riguarda il tradimento, da parte dei democratici, delle promesse elettorali del 2020. Da candidato alla presidenza, quattro anni fa Biden era ben consapevole che gli USA erano seduti su una bomba sociale pronta ad esplodere e per questo delineò un approfondito programma di interventi federali volti a favorire la reindustrializzazione del Paese, una maggiore ridistribuzione della ricchezza, la creazione nuovi posti di lavoro ampiamente tutelati e la rivitalizzazione di un welfare ormai esangue. Alcuni commentatori, anche all’interno del partito democratico, parlarono improvvidamente di un cambiamento di paradigma e del superamento definitivo della stagione neoliberista, e certamente va dato atto al presidente uscente di aver almeno abbozzato, nei primi mesi del suo mandato, misure dal valore di svariate migliaia di miliardi di dollari, come l’American Rescue Plan, l’American Jobs Plan, l’American Families Plan e il Made in America Tax Plan.
Nel giro di meno di due anni, tuttavia, di questi progetti ambiziosi sarebbe rimasta soltanto la carcassa spolpata dalle lobby che, da un lato, avrebbero ottenuto l’eliminazione di pressoché tutti gli interventi di natura sociale e, dall’altro, si sarebbero garantite lauti profitti facendo in modo che i fondi stanziati per infrastrutture e produzioni specifiche prendessero la via delle grandi imprese private. In definitiva, quindi, l’idea di una maggiore giustizia sociale non è stata che una parentesi destinata a chiudersi velocemente, con Casa Bianca e Congresso nuovamente allineati all’agenda delle oligarchie che minacciavano, in caso contrario, di chiudere i rubinetti delle donazioni elettorali. A non essersi riallineati, invece, sono tutti quei cittadini che subiscono gli effetti delle disuguaglianze e della povertà e che, di fronte alle promesse tradite, hanno fatto mancare il loro voto a Harris o hanno sostenuto direttamente Trump.
La seconda ragione del successo dei repubblicani, complementare alla prima, ha a che fare con la propaganda trumpiana: un tratto che noi italiani, con oltre due decenni di berlusconismo alle spalle, dovremmo riconoscere piuttosto bene. Di certo è da escludere che l’elettorato si sia rivolto a Trump per vedere realizzate le promesse non mantenute dai democratici. In realtà, a differenza di quello che molti vorrebbero credere, gli americani sanno benissimo chi è The Donald e quali interessi rappresenta. Il fatto è che il sostegno nei suoi confronti non deriva dal miraggio di eventuali benefici materiali, ma da un’identificazione simbolica.
Trump, infatti, nella sua ben studiata rudezza e trasandatezza, articola un discorso che tocca dei precisi tasti emotivi, come l’iperindividualismo ben radicato nella società statunitense, e che indica dei nemici molto concreti contro cui combattere: in ordine, immigrati, minoranze etniche, esponenti dell’establishment liberal. È un discorso fatto apposta per dividere e polarizzare ma che, nonostante questo, si dimostra vincente nella misura in cui trasmette alla maggioranza dell’elettorato una visione del mondo che, per quanto rozza e infondata, è evidentemente capace di fornire delle rassicurazioni di ordine psicologico a milioni di americani esposti ai rischi di una precarietà non solo materiale, ma esistenziale. Forse a noi europei rimane incomprensibile, ma il mito della frontiera con il suo carosello di eroi duri e tagliati con l'accetta alla John Wayne o più sfaccettati nella personalità come Henry Fonda o James Stewart è ancora radicato nella coscienza americana, soprattutto negli Stati che hanno concorso alla leggenda del Far west.
È del tutto evidente che i democratici, percepiti come tutt’uno con l’establishment, non sono stati in alcun modo capaci di creare un analogo meccanismo di identificazione e rassicurazione. Harris non ha proposto alcun disegno politico in grado di suscitare passione e fiducia, non ha toccato corde emotive se non quelle della paura per l’arrivo dei barbari, non si è proposta se non come la candidata moderata e responsabile contro la marea montante della tracotanza trumpiana. La sua sconfitta, con il senno di poi, era in fondo prevedibile e ricorda da vicino tutte le volte che, nel corso della Seconda Repubblica, il centrosinistra italiano si è presentato alle urne come la coalizione degli “amministratori competenti”, una formazione algida, asettica e politicamente anemica, pronta per essere sbaragliata da un centrodestra capacissimo, da Berlusconi in poi, di maneggiare i dispositivi dell’identificazione simbolica.
Ovviamente anche altre ragioni hanno concorso a determinare l’esito delle elezioni presidenziali. In alcuni contesti – pensiamo soprattutto a uno stato chiave come il Michigan, dove risiede un’ampia comunità araba e musulmana – ha sicuramente pesato molto la questione palestinese e la rivolta contro i democratici complici della timida politica a fermare le armi di Israele su donne a bambini a Gaza. Rimane comunque il fatto che il tradimento delle promesse elettorali da parte dell’amministrazione Biden e la capacità di Trump di creare una narrazione a suo modo rassicurante costituiscono prerequisiti indispensabili per abbozzare un’analisi del voto attendibile.
Detto ciò, non bisogna perdere di vista il punto da cui siamo partiti, ossia che, per le vere élites del potere, a partire dalla grande finanza, era indifferente che a vincere fosse Trump o la Harris. È proprio su questa indifferenza che sarebbe urgente interrogarsi, soprattutto a sinistra. Se infatti queste elezioni presidenziali hanno dimostrato qualcosa, si tratta dell’accentuata deriva oligarchica della democrazia o, per dirla con Emmanuel Todd, dell’imporsi di un nuovo regime politico che va sotto il nome di “oligarchia liberale”, un regime nel quale alla garanzia formale di certe libertà fa riscontro la sempre più netta concentrazione della ricchezza in pochissime mani. E non da oggi, né da ieri. È contro questa logica del potere, e non al suo interno, che andrebbe costruita la vera alternativa. Occorre però prendere atto che al momento le classi dirigenti europee e americane sembrano tutt’altro che disposte a percorrere questa strada, né del resto appaiono all’altezza del compito. Rimane invece da capire fino a che punto sia accettabile per tutti noi che la politica si riduca a “comitato d’affari” delle élites tardocapitaliste.
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