Torino: alle radici delle tensioni dopo la fiaccolata del 24 aprile
- Beppe Borgogno
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Aggiornamento: 12ore
di Beppe Borgogno

Non si sono ancora placate le polemiche per ciò che è accaduto la sera di giovedì 24 aprile, a Torino, durante il corteo per celebrare l’80° della Liberazione: l’assalto finale al palco da parte di esponenti del mondo antagonista, e la discussione animata tra gli organizzatori ed esponenti dell’ Associazione radicale Aglietta nel corso del corteo. Ancora oggi, a maggior ragione dopo lo straordinario successo della grande manifestazione di Milano, che si è svolta senza tensioni ed incidenti degni di nota, proseguono discussioni ed accuse.
Va detto innanzitutto che anche quella di Torino è stata una grande manifestazione: grande partecipazione, tanti giovani, una piazza colma come non si era visto così spesso negli ultimi anni, un segnale davvero importante per lo stato di salute della nostra democrazia.
Ma ancora una volta, l’ennesima, un grande appuntamento che dovrebbe rappresentare anche un chiaro valore unitario, rischia di perdere a Torino il suo senso: accade purtroppo da tempo per il corteo del 1 maggio, da un po’ anche per quello del 25 aprile.
Col passare degli anni in troppi, forse, si sono abituati ad accettare come ineluttabile che questi grandi appuntamenti possano caratterizzarsi più per la contrapposizione che per l’unità: da una parte le istituzioni, i partiti e i sindacati, che vengono accusati di celebrare un rito scontato e con poco significato (?), e dall’altra un’area che, per esaltare la polemica, si definisce “sociale” e usa quegli appuntamenti per autolegittimarsi, anche attraverso l’esibizione muscolare.
E’ una dinamica, questa, pericolosa in sé. Ma col tempo ha finito per creare fratture sempre più spesso artificiose, che di volta in volta si alimentano di semplificazioni e caricature altrettanto pericolose. E che permettono a troppi di provare a sfruttare, anche solo per desiderio di visibilità, le evidenti contraddizioni, e i vuoti, che da tutto ciò derivano. Quelli politici, da cui inevitabilmente dipendono a cascata anche quelli organizzativi e di sicurezza.
Vale per l’area antagonista, ma non solo. Nel gioco pericoloso del “mi metto dove voglio, e chi sei tu per impedirmelo?”, e della contrapposizione, l’altra sera ci sono finite anche degnissime persone, comprese alcune che le istituzioni le frequentano da decenni, che erano lì per rappresentare sacrosanti argomenti, come ad esempio la resistenza del popolo ucraino. Anche alcuni di loro, però, animati da qualche eccesso di autolegittimazione, fino a sfiorare, rasentare - si lascia ampia discrezione nell'uso del verbo... - la provocazione.
E dall’altra parte, persone altrettanto degne impegnate a voler affermare una qualche autorità su come organizzare la manifestazione. Elementi, autorità e manifestazione, che dovrebbero parlare in sincro, ma che si perdono nella trasmissione del labiale se la prima viene messa in dubbio e se la seconda non ha gli strumenti per essere gestita. Insomma, un gioco piuttosto pericoloso alla reciproca delegittimazione, abbastanza grave se si volesse costruire insieme qualcosa di più di una manifestazione.
Eppure c’è stato un tempo in cui organizzare questi appuntamenti era certamente più difficile di oggi. A molti verranno alla memoria i difficilissimi anni ’70, in cui la violenza di piazza era all’ordine del giorno. Ma anche gli anni ’80, in cui era fortissima la contrapposizione a sinistra. E poi quelli dopo Tangentopoli, e infine quelli della contrapposizione con l’antagonismo. Ci fu un anno, durante un corteo del Primo Maggio, in cui furono addirittura alcuni consiglieri comunali del centrosinistra a farsi carico di garantire la partecipazione alla manifestazione del candidato Sindaco dello schieramento opposto. Tempi nemmeno così lontani per il calendario, ma che sembrano invece lontanissimi.
Tempi in cui, a differenza di altri più recenti, autorevolezza e legittimazione, per tante ragioni, erano forse risorse più disponibili rispetto ad oggi. E non solo, forse, tra chi organizza una manifestazione. Più banalmente, tempi in cui organizzazione riusciva anche a fare rima con responsabilità.
Non si tratta, ovviamente, solo di predisporre o meno un servizio d’ordine, cosa peraltro nemmeno così semplice. C’è qualcosa di più grande: il valore della politica e dei messaggi che trasmette, il modo in cui le istituzioni e chi le rappresenta interpretano il proprio ruolo, il significato che sanno dare e trasmettere attorno a eventi come quello dell’altra sera, oltre la loro ritualità. Ma intanto restiamo ai fatti di giovedì: l’avvento della comunicazione globale non può rendere così poco importante ciò che si comunica manifestando, in carne ed ossa.
E’ piuttosto puerile sottolinearne l’indispensabile valore democratico se poi, proprio qui da noi, non si prova a capire cosa è opportuno fare perché esso possa effettivamente realizzarsi. A cominciare ovviamente da un’organizzazione che lo renda possibile, dalla cura nella sua preparazione, dall’attenzione anche politica e dal senso di responsabilità che a ciò si dedica. Perché manifestare è una delle espressioni più importanti di una comunità, un luogo ed un momento, perciò, particolarmente importante. Credo che anche questo, tra i tanti, sia un tema da cui prendere spunto per fare qualche riflessione.
Per chi, per ruolo politico o istituzionale, ha innanzitutto il compito di esercitare autorevolezza e qualche responsabilità, piuttosto che impegnarsi per levarla a qualcun altro. Per chi, in nome dello stesso ruolo politico o istituzionale, dovrebbe evitare di alimentare la spirale della reciproca delegittimazione. Naturalmente sono riflessioni che riguardano soprattutto chi è investito, sempre o solo in occasione di un evento, di obblighi o doveri. Sarebbe ingenuo pensare, ad esempio, che questa stessa riflessione possa riguardare nello stesso modo anche chi anima il mondo antagonista. Ma, se ben fatta, forse può persino ridurne l’ampiezza e accorciare qualche distanza artificiosa, o almeno quelle possibili.
Chissà che non sia proprio questa la sobrietà di cui abbiamo bisogno, sicuramente più appropriata di quella provocatoriamente auspicata qualche giorno fa da un ministro con alle spalle il governo.
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