top of page

Tempo di vacanze. Ritrovare il rapporto con la natura: Pantelleria

di Mariella Fassino


Ritornare a Pantelleria nella casa che dal giardino ritaglia ”lontane scaglie di mare” è entrare nella comfort zone del profumo di capperi e origano che permea i cassetti della cucina, aspettare che il vento si plachi dalla postazione al riparo e all’ombra sotto il cannizzato, dandosi il tempo di leggere con calma i libri portati in valigia.


Un'isola vulcanica

Quando il vento si placherà potrai scendere agli scogli per cercare il punto perfetto per il bagno con guardinga curiosità. Non troppa onda, che si opporrebbe alla risalita, non troppa corrente che affaticherebbe il nuotatore, non troppe meduse. La Pelagia noctiluca da qualche anno, nelle sue iridescenze rosa domina sui bagnanti con le lunghe carezze dei tentacoli che lasciano sulla pelle rosse strisce dolorose.  L’incontro può essere saltuario, la puoi ammirare da lontano contro il fondale blu con la maschera da snorkelling mentre gioca con gruppi di monachelle nere, ma se la corrente le trasporta arrivano a frotte costringendo i bagnanti a una rapida risalita sullo scoglio e allo sport preferito su queste rocce taglienti, la raccolta con il retino di quelle che più si avvicinano alla riva. Qui dicono che le meduse non hanno più nemici naturali, ridotti di molto i pesci a causa della predazione umana, scomparse le tartarughe che ne erano ghiotte.

Pantelleria è “dispettosa”, non sempre riesci ad apprezzare tutto ciò che ti offre, devi avere pazienza, aspettare la giornata giusta ma quando accade puoi fare incontri emozionanti. Come quello con il bruno Pesce Rondine che esplora il fondale roccioso con le pinne ventrali chiuse, allungate lungo il corpo affusolato. Il pesce ti vede, spaventato tenta di entrare in una tana ma è troppo piccola, fa un’inversione di rotta dispiegando le pinne a ventaglio che mostrano un lungo bordo cobalto, scivola lontano con guizzi bruni e blu.

Pantelleria è un’isola del canale di Sicilia, rappresenta il 28% di un complesso vulcanico ancora debolmente attivo nella sua parte sommersa che mostrò l’ultima eruzione importante nel 1831. Nel mare e sulle alture alcune zone testimoniano la vicinanza con le viscere infuocate della terra attraverso l’attività fumarolica. Nel mare sbuffi di acqua bollente intiepidiscono i bagni invernali nella piccola baia di Nikà, e nel porto di Gadir sulle alture, lungo le strade delle Favare convoluti soffioni di vapore sulfureo si ergono dalle fessure delle rocce riscaldando le passeggiate invernali.

Le pietre di Pantelleria parlano il linguaggio complesso dei vulcani, una geologia di basalti, trachiti, ossidiane, rioliti disegna un paesaggio mutevole nei diversi punti cardinali dell’isola che racconta la forza della natura nelle ere che hanno preceduto l’antropocene e come l’uomo si è adattato a queste pietre.


Il faticoso lavoro dell'uomo

Gente di mare i panteschi che ama la terra, lo testimoniano le migliaia di muri a secco edificati con i grandi blocchi bruni o neri di pietra vulcanica. Terrazzamenti fitti hanno reso coltivabili queste Kuddie, formate da aspri pendii che salgono su fino ai piedi della Montagna Grande o giù al mare. Un lavoro titanico fatto dai bisnonni, dai nonni, dai padri che con la tenacia e la pazienza dell’uomo, a braccia nude e l’aiuto di pochi muli, hanno reso coltivabili i fianchi dei crateri, i numerosi coni vulcanici, le strisce di terra tra le scogliere a picco sul mare lasciando alle generazioni successive un’eredità di riscatto dalla fame e l’orgoglio di un paesaggio aspro ma a misura d’uomo. Si coltivavano la vite, l’olivo e i capperi ma anche il grano, l’orzo, le lenticchie i ceci.

I piccoli poderi sparsi fra le Kuddie hanno un Dammuso che è la casa cubica o a corto parallelepipedo di pietra bruna o nera abitata dalla famiglia o adibita a ristoro e protezione del contadino durante il lungo lavoro sotto il sole cocente o l’impetuoso maestrale. Ora i dammusi sono diventati le ambite case dei turisti, molti sognano un dammuso con giardino e piscina, alcuni li realizzano legandosi all’isola in un rapporto che spesso trasforma i vacanzieri in infaticabili giardinieri pronti a prendere l’aereo per raggiungere l’isola in ogni stagione. Qualcuno decide di fermarsi, di viverci, di recidere i legami con la terra ferma aiutati dalla possibilità di lavorare in smart working o di trovare un impiego nelle tante attività enogastronomiche dell’isola. Gente che ama la solitudine, molte donne che raccontano storie di coraggio e cambiamento.

Nei mesi estivi o durante la raccolta dell’uva e delle olive tornano a Pantelleria i discendenti dei vecchi contadini che hanno conservato e abbellito la casa dei padri, dei nonni. Arrivano principalmente dal Nord Est: Verona, Padova, Venezia dove ci fu una intensa immigrazione post bellica ma anche da Anzio, Nettuno, Latina, Velletri. Queste cittadine della campagna romana attirarono gli abitanti di Pantelleria dopo la seconda guerra mondiale per l’opportunità che i braccianti trovavano nella coltivazione della vite e nell’orticoltura.


La memoria dei vecchi panteschi

I Panteschi, quelli che non hanno ceduto al miraggio di una fortuna sul continente continuano a coltivare l’uva, la vite, i capperi ma sono anche piccoli artigiani che sanno fare di tutto. Ci sono i decani di questo ingegno eclettico, come Totò che ha costruito la propria casa e aiutato a costruire quelle degli amici, che raccoglie le  olive del suo campo e non si tira indietro se c’e da dare una mano con le piante dei vicini che fa la vendemmia propria e dei compari. La solidarietà nel lavoro è la cifra di questa comunità che trasforma una giornata di fatica in una serata di festa collettiva all’insegna di un desco ricco di cose buone e buon vino. Totò ora non vede più, ma ricorda, siede a capotavola, è la memoria storica di Scauri, il piccolo borgo che guarda verso l’Africa e il tramonto. Ricorda quando dall’isola partivano le navi con le stive cariche dei dolci frutti dell’uva passa o quando il mulo attaccato alla cavezza nel suo percorso circolare sull’aia calpestava le lenticchie o il grano dividendo i legumi o i chicchi dalla pula che veniva soffiata lontana dal vento.

Nelle giornate terse da qui si vede la costa della Tunisia, un braccio di mare, 80 chilometri separano l’isola dal grande continente africano. Gli sbarchi sono meno numerosi che a Lampedusa, più difficile l’approdo impedito dalle scogliere e dalle rocce della costa, lontana la Libia, tuttavia non è infrequente trovare pezzi variopinti di barche con scritte in arabo o parti di motori e eliche incastrati tra gli scogli.

Totò ricorda quando l’acqua per le case, le genti e i campi era acqua piovana, nessuna fonte o pozzo o fiume. Scorreva dalla concavità centrale alla convessità periferica del tetto del Dammuso per scendere lungo il canale verticale sulla facciata fino all’ampia cisterna in basso. Acqua raccolta e conservata con cura durante l’inverno, consumata con parsimonia, negli aridi mesi estivi. Se non fosse per il dissalatore messo in funzione dal 1990 l’isola si sarebbe spopolata a causa della grande siccità che sta attraversando il Sud dell’Italia. Gli isolani apprezzano questo bene faticosamente conquistato con la modernità e lo usano con moderazione. L’acquedotto pompa nelle cisterne delle case il fabbisogno mensile e se si eccede il consumo si dovrà far ricorso a un surplus portato con le autobotti a caro prezzo.


E’ nato un bambino e l’ulivo vicino al Dammuso si adorna di fiocchi azzurri, un’usanza festosa per dire a tutta la comunità che c’è chi resiste alla tentazione di andarsene via da questo sole che acceca, da questo vento che è scirocco, maestrale, tramontana e può soffiare per intere settimane impedendo l’atterraggio degli aerei e l’attracco della nave. Molti giovani migrano al Nord o vanno a Londra con le loro competenze e abilità. Hanno studiato geologia a Palermo e sono vulcanologi, hanno imparato le lingue e fatto l’alberghiero a Spoleto, sono assistenti di volo sugli aerei o hanno impieghi nelle marinerie. Tutti tornano per le ferie, la raccolta delle ulive o la vendemmia. A settembre l’atmosfera si carica del profumo di zibibbo, grappoli dorati, grandi come una grande mano vengono raccolti dai filari bassi e distesi ad appassire nelle piccole serre. Dalla spremitura sapiente di questi acini si ricava il famoso Passito di Pantelleria un vino ambrato forte e dolcissimo che attira gli intenditori.


Autunno, la stagione dei camminatori

In autunno le giornate sono ancora calde e terse, ma il popolo dei bagnanti che anima gli scogli cede il passo al popolo dei camminatori, si inerpicano sugli antichi sentieri di pietra e terra e salgono diritti verso le Kuddie. Raggiungeranno la Montagna Grande con il suo mantello di castagni, lecci e pini marittimi andranno in cerca di finferli, i funghi che tra settembre e novembre crescono rigogliosi nell’umido della fitta bruma. La chiamano “Muffura” questa nebbia che sale compatta dal mare o scende dalla montagna per sfrangiarsi sul fronte di avanzamento in volute barocche, lingue di drago che si depositano sulla vegetazione stremata dall’arsura. Scende come un balsamo e restituisce alle piante piccole gocce di vita, così la macchia mediterranea, le palme, gli ulivi, i filari di zibibbo rinverdiscono e fanno di questo scoglio pietroso battuto dai venti un giardino roccioso con macchie verdi incastonate tra le pietre brune. Solo gli agrumi hanno bisogno di cure e attenzioni umane, temono il vento e l’arsura perciò l’uomo deve fornirgli protezione e riparo.

Le rare piante di limoni o mandarini o arance sono circondate e custodite dl Giardino Pantesco, un muro circolare di pietre laviche edificato a cilindro o tronco di cono che di norma circonda una sola pianta. Nei mesi invernali l’agrume restituirà generosamente con i frutti dolci e succosi le cure che l’uomo gli avrà riservato durante i mesi estivi.

Per i turisti che come noi vivono in città, separati dai capricci del mare, del cielo e dei venti la natura dell’isola è allo stesso tempo dolce e minacciosa, potente e carezzevole. Se il linguaggio delle pietre ti stordisce con le distanze temporali delle ere geologiche, di notte le stelle ti parlano di quelle spaziali. Ne cerchi i nomi sulla mappa stellare, la magnitudo, la collocazione astrale, le perdi inseguendone altre fino a confonderle nella lattescenza che nelle notti più terse solca nitidamente il cielo da Nord a Sud. La Via Lattea qui è la vertigine, lo stordimento di un cielo senza fine.


 

 

100 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comentarios


L'associazione

Montagne

Approfondisci la 

nostra storia

#laportadivetro

Posts Archive

ISCRIVITI
ALLA
NEWSLETTER

Thanks for submitting!

bottom of page