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Guido Tallone

Suicidi in carcere: un déjà vu crudele e vergognoso

di Guido Tallone


“Déjà vu”, dicono i francesi. E l’espressione (che letteralmente significa “già visto”) viene utilizzata per indicare il ripetersi – pigro e colpevole – di eventi che avrebbero dovuto essere evitati. A volte si tratta di una erronea sensazione: la convinzione di aver già vissuto un’emozione o un momento più o meno piacevole. Altre volte, però, è un vero e proprio reiterarsi di fenomeni che andavano “fermati” e che – per sciatteria, per negligenza, per colpevoli omissioni, per mancata prevenzione e assenza di controlli – si ripropongono con tutto il carico di dolore e di negatività che accompagna questi eventi.

Sono un “déjà vu”, per capirci, i femminicidi (nel 2024 si è superata la quota 100!) con tutto il doveroso e doloroso rituale che li accompagna.

Sono un “déjà vu” anche le tante, troppe, morti sul lavoro (890 denunce di morte nei primi dieci mesi del 2024 ed oggi, 13 dicembre, è deceduto un operaio di 65 anni in provincia di Sondrio mentre lavorava sulla nuova tangenziale di Tirano) che spengono la vita di chi, uscito di casa per svolgere un servizio alla società e alla sua famiglia, non vi fa più rientro.


L'esortazione di Giovanni Paolo II

Ma rischiano di essere un vero “déjà vu” anche le tristi condizioni carcerarie che in Italia bussano alle porte del prossimo Giubileo della Chiesa cattolica. Esattamente come nell’anno 2000 con il Giubileo fortemente voluto da Giovanni Paolo II per l’apertura del Terzo millennio. Nei mesi precedenti il 2000, le strutture carcerarie erano caratterizzate da sovraffollamento (53.389 detenuti per circa 40.000 posti) che aggiunge alla privazione della libertà anche la negazione della dignità umana. Più della metà dei detenuti erano immigrati e italiani alle prese con la tossicodipendenza (appartenenti cioè al cosiddetto mondo dei poveri. Dal 1996 al 1998 ci sono stati, nelle carceri italiane, 151 suicidi (il 60% di questi avvenuti nel primo anno di detenzione) mentre i tentati suicidi sono stati 933 (rispetto ai 706 del triennio precedente) e i gesti di autolesionismo sono stati 6.342.

Anche per questi motivi Giovanni Paolo II volle celebrare il Giubileo dei detenuti a Roma, nel carcere di Regina Coeli. La data è rimasta scolpita nella storia: 9 luglio 2000. E in quella occasione papa Woytjla parlò chiaro: “la pena non può e non deve assumere il volto della vendetta sociale, ma che ha senso solo se porta, con sé, le prospettive del rinnovamento e del reinserimento del recluso nella società”. E per ben due volte il Papa chiese, in quella circostanza e ai governanti di tutto il mondo, una riduzione di pena per i detenuti (nel linguaggio tecnico giuridico si parla di amnistia e indulto).

Furono pochi i governanti  che lo ascoltarono. In Italia, nessuno.


Alla vigilia del nuovo Giubileo

Sono passati 25 anni. E oggi si stanno scaldando i motori per il Giubileo del 2025. E se guardiamo alla condizione carceraria odierna, siamo costretti a constatare che rispetto a 25 anni fa, le cose non solo non sono cambiate, ma sono peggiorate. Un triste “déjà vu” che, in occasione del Giubileo 2025, rischia di ripetersi.

Lasciamo parlare i numeri. Oggi il sovraffollamento carcerario si presenta come cronico, irrisolvibile e si attesta intorno al 120% (con picchi in alcuni istituti di oltre il 200%). Dei 61.758 detenuti presenti oggi su una capienza ufficiale di 51.234, quasi 10.000 sono in attesa del primo grado di giudizio, mentre circa 6.000 sono i condannati in primo grado, ma in attesa di una condanna definitiva nei successivi gradi di giudizio, tecnicamente supposti innocenti o con probabili riduzioni di pena. Più del 50% dei detenuti con almeno una condanna definitiva ha una pena residua inferiore ai 3 anni (e quindi potrebbe in teoria avere accesso a una delle misure alternative alla detenzione previste per legge), e circa 8.000 hanno una pena inferiore a 1 anno (e di questi quasi il 40% sono stranieri spesso impossibilitati ad accedere alle misure alternative alla detenzione per mancanza di un domicilio adeguato).

Due ulteriori dati illuminanti: nelle nostre carceri il 31,3% sono immigrati (19.100) e il 25% sono detenuti “tossicodipendenti” (circa 17.500). Esattamente come i quarto di secolo fa: il carcere resta la prima vera risposta che il nostro sistema sociale offre a poveri e immigrati! Un quadro aggravato da condizioni di vita per i detenuti particolarmente pesanti, spesso in strutture molto vecchie o con scarsissima qualità edilizia, con celle piccole bollenti d’estate e gelide d’inverno.


Una dimensione da girone dantesco

Lentezza dei processi, ritardi e esasperante burocrazia, mancanza di spazi attrezzati per le attività trattamentali e scarsità di personale dedicato peggiorano la situazione di un sistema che sembra effettivamente ormai fuori dal tempo. La sequenza dei suicidi, che non risparmia anche chi negli istituti penitenziari ci lavora, è drammatica: 86 suicidi nel 2024 (gli ultimi due in questi giorni: a Genova, Abir di 21 anni e a Verona, Robert di 24 anni) mentre sono 232 le persone morte in un istituto penitenziario nel 2024: la cifra più alta dal 1992 a oggi secondo i dati di Ristretti Orizzonti.

Per non parlare delle tante (troppe) indagini per botte, percosse, umiliazioni e torture agite da parte delle guardie carcerarie sui detenuti. Sull’Avvenire, giornale dei vescovi italiani, così ha scritto Silvano R. Spagnolo il 21 novembre scorso: “«A volte i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina» e veniva «praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile... ». È un esercizio davvero doloroso, quello di ascoltare la ricostruzione del procuratore di Trapani Gabriele Paci, coordinatore dell’inchiesta nata nel 2021 e che ieri ha portato all’emissione di 25 misure cautelari e interdittive a carico di altrettanti agenti penitenziari del carcere Pietro Cerulli.”.

Papa Francesco non si è lasciato scoraggiare da queste vicende e nella Bolla di induzione del Giubileo 2025 ha scritto: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità”.


Le condizioni per invertire la rotta

Cambierà qualcosa? È possibile. Sono necessari però alcune precise condizioni.

La prima riguarda il fatto che la realtà del “carcere” deve uscire dal mondo dell’emotività rancorosa di chi vuole nascondere sotto il tappeto (oltre il muro) le contraddizioni del nostro convivere sociale. Fino a quando non ci dedichiamo a contrastare con determinazioni le troppe diseguaglianze sociali che convivono nelle nostre società, il carcere resterà lo “sgabuzzino” in cui nascondiamo le nostre contraddizioni sociali e a cui affidiamo il compito di pulire la nostra coscienza (colpevole di convivere in modo troppo silenzioso con inaccettabili ingiustizie) con richieste di “pene certe”, “sicurezza della pena” e allontanamento dal sistema sociale dei cattivi (senza mai parale di “pena rieducativa”).

Pesante, da questo punto di vista, la bocciatura, nel Consiglio regionale del Piemonte, di un ordine del giorno presentato dal Partito Democratico per affrontare la grave situazione di sovraffollamento e di disagio che si vive all’interno delle carceri piemontesi. Creare le condizioni perché la detenzione si svolga nel solco della nonviolenza, della rieducazione e senza calpestare la dignità di chi deve scontarla è la spia che ci avvisa che siamo in un Paese civile. Fino a quando l’opinione pubblica non chiederà un minuto di silenzio e di vergogna per amministratori che permettono al carcere di essere la zona franca della vendetta sociale, non usciremo da contesti sociali segnati pesantemente dalla violenza.

Seconda. Dobbiamo convincerci, una volta per tutte, che la privazione della libertà (il carcere, per capirci) deve restare l’extrema ratio di un sistema giudiziario chiamato a correggere chi pratica l’illegalità. Aumentare i reati e le pene detentive è solo propaganda per parlare alla pancia dell’elettore arrabbiato, ma non serve a nulla se non ad incrementare un sovraffollamento già al collasso. Per fare un esempio: permettere al 50% dei detenuti di “scontare” gli ultimi mesi della propria condanna agli arresti domiciliare e magari lavorando, non solo aiuta il detenuto a ritrovare i sentieri della fiducia e della convivenza nel segno della legalità, ma alleggerisce anche la presenza nelle nostre patrie galere di presenze e, sicuramente, permette una detenzione più umana, per chi ancora deve scontarla.

Terza. Dobbiamo mettere in conto che senza una riqualificazione seria della condizione delle guardie carcerarie (formazione, stipendi, dignità di un lavoro durissimo che non può essere sottovalutato), il carcere resterà il simbolo per eccellenza del degrado sociale.

Quarta. Anziché continuare ad ipotizzare la costruzione di nuove e ulteriori strutture detentive, la politica si assuma il coraggio di dire che i nostri Istituti di pena e di reclusione non sono più all’altezza di un Paese civile e si inizi a demolire le vecchie strutture per sostituirle con nuove costruzioni pensate e realizzate per dare alla reclusione la forza della rieducazione. Come diceva l’arcivescovo di Milano in occasione della sua visita nel carcere di Opera di Milano nel Natale 1999 (vigilali dell’Anno Santo): “La società deve comprendere che è meglio per la pace sociale e per l’ordine pubblico promuovere e aiutare le persone detenute a crescere, a riabilitarsi, a trovare lavoro, non restringendole con provvedimenti che le rendono incapaci di percorrere la via della propria dignità”.

Dopo 25 anni sono certo che un Vescovo o Cardinale italiano, in occasione di una visita natalizia in un carcere italiano, potrà dire la stessa frase. “Dèjà vu”, dovremo dire.

Sperando però che le parole di Papa Francesco che chiedono, in occasione di questo Giubileo, “forme di amnistia o di condono della pena” questa volta vengano ascoltate.


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