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Beppe Borgogno

"Spezziamo questo circolo vizioso attorno all'Askatasuna"

Aggiornamento: 10 minuti fa

di Beppe Borgogno


Per tutto l’ultimo anno, la decisione della città di considerare l’immobile di Corso Regina 47 (sede storica del centro sociale Askatasuna) “bene comune” da recuperare senza sgomberi forzati, è stata oggetto di polemiche e scontri politici molto forti.

Per qualcuno (la destra politica, compreso qualche membro del governo, e persino qualcuno dei sindacati delle Forze dell’Ordine nell’ inedito ruolo di opposizione anche politica) quella decisione è diventata il simbolo di un presunto scarso impegno dell’amministrazione sul tema della sicurezza, di un eterno ritorno degli anni ’70 di cui la città sarebbe ancora prigioniera, ed il pretesto per  tentare di mettere nell’angolo l’amministrazione. Gli storici occupanti dell’immobile continuerebbero ad usarlo per pianificare e organizzare praticamente ogni momento di tensione che attraversa la città: le manifestazioni studentesche più calde, ma anche i recenti e violenti disordini  seguiti alla morte a Milano del giovane Ramy.

Tuttavia la città, e il sindaco Stefano Lo Russo lo ha ribadito ieri, 14 gennaio, nella riunione con i capigruppo in Sala Rossa, ha deciso di andare avanti, ribadendo le proprie convinzioni, mettendo in campo tutti gli inevitabili distinguo, e provando a rilanciare con i propri impegni su sicurezza ed integrazione.

Insomma, a distanza di un anno quella scelta coraggiosa ed innovativa, da riempire di atti e contenuti e da svuotare dalle contraddizioni attorno a cui rischiava di impantanarsi, ha finito per diventare, come non era difficile prevedere, un altro dei tanti argomenti con cui si sostanzia l’eterno circolo vizioso attorno al tema della sicurezza. Quello che vede la destra (all’opposizione a Torino, ma al governo in Italia) tentare di andare all’incasso mostrando muscoli non sempre sensati né necessari, e la sinistra, che amministra la città , che tenta con difficoltà di mostrare i muscoli nell’unico senso che le compete davvero: obiettivi condivisi, azioni coerenti, investimenti conseguenti.

Forse,  a distanza di un anno, sarebbe però utile “ripulire” il campo da ottiche opportunisticamente falsate e da contraddizioni che andrebbero probabilmente affrontate con più coraggio.

Il capoluogo del Piemonte, come tante altre città, ha sicuramente problemi ma non vive una “emergenza” per quanto riguarda la sicurezza: oggi, ma nemmeno in passato. Agitare l’emergenza quando non c’è, può anche procurare qualche effimero vantaggio a chi lo fa, ma il caos che ne consegue, ed il rischio di trasformare la paura in odio, finiscono per non aiutare davvero nessuno, anzi.

Torino, come tutta il Paese, ha lasciato gli anni ’70 alle sue spalle qualche decennio fa. L’antagonismo di oggi, per fortuna, non è quello di quel remoto passato, e tanto meno è paragonabile il contesto. Chi ne parla in termini apocalittici, non sa di che cosa parla e specula sul dolore di chi ha vissuto sulla propria pelle gli anni di piombo. Su un punto però si può convenire: ne sopravvivono la retorica e la caricatura, ma anche alcuni retaggi violenti che finiscono per tradursi negli attacchi alle Forze dell’Ordine, da perseguire senza giustificazione alcuna. E’ un antagonismo settario che non va né compreso né legittimato, cosa che pure alcune ossessioni della destra rischiano di fare.

Non basta però pensare che si tratti solo di un problema di ordine pubblico. Ad esempio, è sempre necessario evitare che si realizzino pericolose “saldature” tra il mondo cosiddetto antagonista e la rabbia dei ragazzi delle seconde e terze generazioni che vivono nelle aree critiche delle nostre città: figlia di vite precarie, spesso con poca speranza e poco futuro, ed anche per questo di inclusioni poco riuscite. Bisogna fare il vuoto attorno all’attrazione della violenza, e perché ciò accada occorre che lo Stato si presenti anche con altro oltre al controllo e alla repressione: c’è un grande spazio vuoto su cui dovrebbero cimentarsi le istituzioni, la politica, l’associazionismo e persino la Chiesa. Altro che Daspo urbano.

Sicurezza e integrazione sono, anche,  strade meglio illuminate, servizi più diffusi e più vicini, collegamenti migliori, più opportunità e meno stereotipi. La vicenda che riguarda l’immobile di Corso Regina Margherita ha un senso se chi amministra la città riesce a collocarlo proprio in questa logica: offrire alla città e ai cittadini una risorsa, sottrarla ad un uso stereotipato e privatistico, se possibile senza violenza. Mostrando, appunto, i muscoli che sono propri delle città e di chi le amministra: idee e scelte coerenti che si traducano in occasioni e in opportunità.

Se invece appare come una questione burocratica ed amministrativa, di cui non sono del tutto chiari né i tempi, né i percorsi, diventa inevitabile coglierne soprattutto i rischi e le contraddizioni. Quella dei “garanti” che, verosimilmente, fanno fatica persino a garantire che effettivamente quel palazzo non sia ancora occupato; o di una responsabilità politica sullo sviluppo del progetto che talvolta è sembrata oscillare tra gli stessi garanti e la città. Ed infine, il rischio che la lunghezza e la complessità di un percorso ambizioso, senza che ne vengano ancora meglio definiti i confini, soprattutto quelli relativi alle responsabilità, finiscano per consentire a qualche residuo protagonista della violenza urbana di sopravvivere in una comoda e pericolosa ambiguità. E non basterebbe, in questo caso, ricordare che alle manifestazioni partecipano le persone e non gli edifici.

Insomma, la città deve trovare la forza per sottrarre la vicenda dell’immobile di Corso Regina Margherita (e per sottrarsi) al circolo vizioso sulla sicurezza. Un copione che da anni non cambia, anche se cambiano i problemi e gli attori. Fatto di sovrapposizioni, di accavallamenti, di invasioni di campo che contraddicono l’unico schema che negli anni, quando è stato possibile, ha dimostrato di poter funzionare: le istituzioni condividano gli obiettivi, e poi ognuno faccia fino in fondo la sua parte. E ai Sindaci il compito, non semplice, di collocarsi al centro di questo schema, non per fare gli sceriffi, ma per diventarne garanti e rompere un assedio che davvero alla fine non serve a nessuno.

Con il massimo della responsabilità e della chiarezza, come serve in questo caso. Per provare a cancellare ogni dubbio, almeno nel limite del possibile, compresi quelli di chi scrive e per chi legge.

 

 

 

 

 

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