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Socialismo e democrazia in Palmiro Togliatti 60 anni dopo

di Vice


"Con profondo dolore la Direzione del Partito Comunista Italiano annuncia la morte del compagno Palmiro Togliatti, avvenuta oggi 21 agosto alle ore 13,20 a Yalta, in quella terra sovietica che l'aveva ospitato in alcuni degli anni difficili dell'esilio dalla patria".

Con queste parole, sessant'anni fa, l'Unità apriva la sua edizione di sabato 22 agosto 1964. Il protagonista di una lunga e irripetibile stagione politica se n'era andato all'età di 71 anni. Il capo del partito comunista italiano, il più grande dell'Europa occidentale, lasciava dietro di sé una scia di sincero dolore e rimpianto tra chi ne aveva apprezzato la lucidità e la profondità di pensiero.

La fama del Migliore che l'accompagnava all'interno del Pci non era usurpata. Rifletteva, prendiamo a prestito le parole dell'organo del partito comunista, "un grande figlio del popolo italiano, un dirigente geniale del movimento comunista mondiale, un combattente rivoluzionario che ha speso tutta intiera la sua esistenza in una lotta dura e infaticabile per il socialismo, per la democrazia, la pace". Tre righe con le quali l'Unità raccontava nella stessa edizione da pagina 5 a pagina 9, sotto il titolo "La vita e la lotta di Palmiro Togliatti, capo della classe operaia italiana", chi era stato il Migliore. Erano frammenti di un enorme puzzle di storia personale che riproponevano le origini familiari in Sardegna, gli studi a Torino, la militanza nel partito socialista e l'esperienza dei Consigli e dell'Ordine Nuovo insieme con Antonio Gramsci, la fondazione del Pci a Livorno, l'esilio in Unione Sovietica con la moglie Rita Montagnana e i successivi passaggi da un'esistenza politicamente inimmaginabile oggi, che gli storici di area comunista, in primis Paolo Spriano ed Ernesto Ragionieri, avrebbero negli anni successivi studiato e analizzato meticolosamente, e un grande giornalista, Giorgio Bocca, riunito in una biografia originale e non convenzionale pubblicata alla vigilia del primo decennale della morte. E, in anni più recenti, riproposti da Giuseppe Vacca con il proposito encomiabile di illuminare quelle vicende che ancora si prestavano a speculazioni e polemiche da retrobotteghe sul rapporto tra Gramsci e Togliatti durante la prigionia del primo nelle carceri fasciste e le iniziative del partito per liberarlo. Era, come lo definì nel titolo del libro, il "Togliatti sconosciuto" visto con l'apporto di documenti in parte inediti che misuravano l'incidenza del leader comunista nella storia d'Italia, dalla svolta di Salerno nel 1944, maturata già all'indomani del 25 luglio 1943, in cui affaccia l'ipotesi di un suo rientro in patria, al rapporto con le alte sfere vaticane durante la Resistenza e con la finanza italiana nella fase della Ricostruzione.

Totus politicus, raffinato intellettuale, pragmatico fino a rasentare la linea del cinismo, Palmiro Togliatti era stato un vero capo partito, secondo la tradizione comunista e non solo. E per questo ammirato e attraverso l'ammirazione amato. Anche se conservava un'aria professorale, quasi altera, fredda e distaccata. Ma l'ammirazione a tutto tondo era un forte antidoto di cui il Migliore sapeva fare uso buono e parsimonioso, soprattutto se rivolto a curare gli aspetti meno empatici della sua personalità. Ma che il "compagno Ercoli" (nome di battaglia) si fosse conquistato l'ammirazione dal suo ritorno in Italia nel 1944 era fuori discussione. Fascino per più generazioni derivato dalla sua scrittura e dal suo eloquio messi al servizio nei comizi di una retorica superba, oggi diremmo d'altri tempi, intercalata da pause (raccontava chi l'aveva ascoltato) che facilitavano la riflessione e l'introiezione dei concetti, fissati come punto di partenza e non di arrivo, con un rifiuto di principio delle scorciatoie di battute ad effetto, che pure non mancavano, ma che erano sempre inserite in una traiettoria di pensiero alto, elevato, mai dozzinale.

Segretario generale di un partito allineato a Mosca sulle questioni internazionali, ma non subalterno a Stalin in politica interna, Palmiro Togliatti indicò con la svolta di Salerno la via italiana al socialismo perseguita con la costituzione del "partito nuovo": un partito di massa disancorato dagli schemi dell'organizzazione antica formata da rivoluzionari di professione sul modello leninista. Era la via italiana al socialismo.

Paradossalmente, a conferirgli autorevolezza, erano proprio gli accordi di Yalta tra Roosevelt, Churchill e Stalin che riconducevano l'Italia nella sfera d'influenza occidentale. Una "libertà d'azione" di cui Togliatti avrebbe fatto largo uso anche per frenare l'intemperanza della base partigiana che si riconosceva in Pietro Secchia, il numero due del Pci. Era il "Vento del nord" delle formazioni partigiane "Garibaldi" che teneva lubrificate le armi per l'ora X, per la rivoluzione, la sollevazione armata popolare. E la tragedia dei comunisti greci, stritolati nel 1947 dalla reazione delle forze alleate nel vano tentativo di rovesciare il governo legittimo, diede a Togliatti il primo assist per imporre la sua strategia politica nel Pci. Il secondo gli arrivò dell'attentato subito il 14 luglio a Roma per mano di un giovane di destra, Antonio Pallante. Dal letto d'ospedale, mentre l'Italia era sull'orlo di una guerra civile, con le città bloccate da scioperi e manifestazioni, con le fabbriche occupate da operai e da ex sappisti armati, con il capo della Fiat Vittorio Valletta sequestrato nella palazzina di Mirafiori a Torino, dal letto d'ospedale invitò a riprendere il lavoro e non si fece neppure mancare una battuta di sarcasmo al suo attentatore: "è stato un fesso, quattro colpi, non uno decisivo!". La vittoria al Tour de France di Gino Bartali, il ciclista cattolico "giusto tra le nazioni" per aver salvato decine di ebrei dai forni crematori durante l'occupazione nazista, come si seppe qualche decennio dopo, unì il Paese e contribuì a placare gli animi. Il terzo assist, che assicurò la sua definitiva supremazia e l'impronta riformista nel partito fu il caso Seniga: la "diserzione" nel 1954 del principale collaboratore di Secchia con la cassa e importanti documenti sulla struttura paramilitare del Pci che segnò l'eclissi e l'emarginazione politica dello stesso Secchia.

Direttore di Rinascita, la rivista da lui fondata per raccogliere attorno al Pci l'intelligenza italiana, e creare una scuola di reclutamento intellettuale per favorire il ricambio nel partito e dosare gli equilibri interni, amava discutere alla pari con scrittori, registi, storici, giornalisti. I suoi interventi sulla rivista non erano soltanto di natura politica e quanto mai attesi e temuti erano i suoi graffianti corsivi con il nom de plume Roderigo di Castiglia, da cui traeva polemiche e suscitava dibattiti spigolosi. Famoso rimase lo scontro nel 1947 con Elio Vittorini, all'epoca direttore de Il Politecnico, sull'egemonia culturale e sul ruolo degli intellettuali nella società, che Roderigo di Castiglia liquidò con un fondo di cattiveria velenosa anni dopo, nell'estate del 1951, con la chiosa altrettanto famosa dal sapore beffardo all'uscita dello scrittore dal partito: “Vittorini se n'è ghiuto, E soli ci ha lasciato". Allo stesso tempo, non era insolito in Togliatti mostrare generosità e vicinanza. Un giorno, bacchettò un critico cinematografico per essere stato "troppo critico" con il regista comunista Giuseppe De Santis, l'autore di "Riso amaro" con cui aveva lanciato l'ex giornalista de l'Unità Raf Vallone, che si era reso interprete di un impegnativo lavoro di acculturamento delle masse popolari.

Del resto, l'aneddotica sull'ironia togliattiana è ricca e pregevole proprio perché riflette la capacità di amalgamare la politica alla cronaca, anche nelle stanze del Pci. Sferzante lo era, ma con tutti, con la base e con i vertici. Figlio della piccola borghesia che aveva vinto il concorso per una borsa di studio al Collegio Carlo Alberto di Torino, "l'unica volta che mi sono piazzato di un posto davanti ad Antonio Gramsci", ammise con un misto di orgoglio e civetteria anni dopo, ricordo a un neo parlamentare che gli si era avvicinato con eccessiva confidenza, l'esistenza della terza persona singolare; a un altro, "eccessivamente proletario" nell'abbigliamento, ripropose l'orgoglio delle classi lavoratrici nel vestirsi con l'abito migliore nei giorni importanti. Imperturbabile, riuscì nell'impresa di silenziare l'impossibile e iracondo Gian Carlo Pajetta, quando a questi, che l'aveva chiamato dalla Prefettura di Milano, "occupata" nel dopoguerra per contrastare la rimozione dei prefetti della Resistenza, replicò gelido: "E ora che cosa te ne fai?". E cinico nel suo realismo politico, fece sgorgare le lacrime dal viso segnato e già malato di Giuseppe Di Vittorio all'indomani dell'invasione di Budapest dei carri armati con la stella rossa nell'autunno del 1956, invasione che il leader della Cgil aveva condannato.

Eppure, proprio Togliatti mesi prima aveva criticato con una lettera privata al segretario generale del Pcus Krusciov e alla nomenclatura sovietica la gestione del Rapporto segreto reso noto al XX Congresso sovietico che aveva denunciato i crimini di Stalin. In quella circostanza, era emersa nettamente la propensione del leader del Pci a una revisione storica del comunismo sovietico e internazionale e, dunque, della sua stessa storia personale che l'aveva visto protagonista di primo piano dell'élite comunista nell'esilio di Mosca e nella sua esperienza durante la guerra civile di Spagna nel 1936, in quelle pagine nero pece contrassegnate dall'antitesi tra comunisti e anarchici, cui lo scrittore Orwell dedicò il libro Omaggio alla Catalogna. Una lunga revisione non estranea al successivo Memoriale di Yalta, da considerare a tutti gli effetti il suo testamento politico. Scritto nei giorni antecedenti alla sua morte, riassume il principio della via italiana al socialismo e del diritto di ricercare il massimo della democrazia all'interno dei paesi socialisti. Una critica implicita al sistema sovietico.

Un capitolo a parte meriterebbe il suo impegno istituzionale all'Assemblea Costituente, il lavoro svolto da ministro della Giustizia, che diede al Paese una rapida amnistia (discutibile però sul piano dei risultati) per superare le lacerazioni della guerra civile, le sue relazioni con i principali esponenti del comunismo e del socialismo internazionali. Un altro capitolo, estremamente delicato, riveste la sua sfera intima, le vicende personali che sfogliano il libro d'amore con Nilde Iotti, contrastata all'inizio dal Pci, il rapporto con la moglie Rita Montagnana e il dolore per la malattia dell'unico figlio, Aldo, Aldino, raccontati magistralmente nel libro "Un'altra parte del mondo" di Massimo Cirri. Ma, in questo caso, crediamo che non aggiungerebbero nulla ai sentimenti che condivisero il milione e più persone che parteciparono il 25 agosto a Roma ai suoi funerali e che Renato Guttuso sublimò poi in un celebre dipinto. Sentimenti rispetto al suo percorso politico che lo stesso Togliatti aveva punteggiato in occasione del suo sessantesimo compleanno, nel 1953, in quella che fu definita una sorta di meditata e commossa autobiografia, all'interno della quale furono enumerate dal diretto interessato tre fortune che riproponiamo:

"[...] una di avere incontrato Antonio Gramsci che mi ha aiutato, che mi ha indicato la strada. Senza di lui io non avrei potuto fare ciò che ho fatto. La seconda fortuna fu quella di essermi trovato a vivere a Torino dove agiva la parte più avanzata della classe operaia italiana e dove noi andammo alla scuola della classe operaia torinese. La terza fortuna è stata di essere stato partecipe, di essermi trovato al centro di un lavoro di eccezionale portata internazionale, che fu compiuto tra la fine della Prima guerra mondiale e lo scatenarsi della Seconda".

Togliatti concluse poi con parole che si sono oramai perdute nel tempo e che soprattutto sembrano avere perduto cittadinanza politica, ma che per quanto viziate dalla nostalgia muovono un moto di orgoglio per chi continua a credere nella missione alta della politica:

"Voi dite che ho dato molto al partito, alla classe operaia, al movimento dei lavoratori e al nostro popolo. Mi domando però se è più quello che ho dato o se è più quello che ho ricevuto. Credo che probabilmente ho ricevuto più di quanto io abbia potuto dare, in quarant'anni di lotte. Spetta dunque a me lavorare, combattere, dare ancora, per riuscire a saldare il debito. Però non spetta soltanto a me. Spetta anche a voi, perché quello che a me è stato dato, non è stato dato a me come persona ma è stato dato al nostro partito, a questa nostra grande organizzazione nel la quale gli operai vedono la luce della loro speranza".

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