Siria e Libia, azione comune contro Erdogan
Aggiornamento: 21 apr 2023
di Germana Tappero Merlo
La guerra in Siria sta entrando nel suo decimo e forse ultimo anno. Non è solo un auspicio per il popolo siriano, ma la conclusione a cui stanno giungendo numerosi analisti, visti i recenti accadimenti. Importante, ma non decisiva la cattura l’8 maggio di un esponente, seppur di medio livello, dell’organigramma di quel che rimane dell’Isis in terra siriana, nella provincia di Deir Ezzor. Un’ulteriore vittoria di Assad sulle forze ribelli più radicali, in una regione in cui l’Isis può ancora contare sull’appoggio della popolazione locale, anche se la presenza più minacciosa per il regime è quella dell’Hayat Tahir al-Sham, ossia al-Qaeda in Siria, sempre nel nord del Paese.
Così pure è stata congelata la battaglia per Idlib da un cessate il fuoco fra Russia e Turchia dovuto all’emergenza sanitaria da coronavirus. Ma che Assad abbia vinto la guerra, quella scoppiata dalla degenerazione della rivolta delle piazze della primavera araba del 2011, è ormai chiaro e conclamato. E che non l’abbia fatto con le sue sole forze, pure. Gli aiuti russi e iraniani sono stati determinanti al punto che la minaccia di una presenza militare iraniana permanente su quel territorio, a completare quella Mezzaluna sciita che da Teheran, passando da Bagdad, Aleppo e sino a Damasco appunto, era nei sogni della dirigenza degli ayatollah iraniani, aveva fornito ad Assad nuovi alleati fuori area, ma anche allertato antichi nemici, come Israele. I bombardamenti da parte dell’aviazione con la stella di David (da mesi effettuati a spot, ma 6 in una sola settimana ad inizio maggio, anche se, come sua consuetudine, Tel Aviv non conferma nulla) alle basi militari dei pasdaran e di forze sciite filoiraniane nell’area di Mayadin, al confine con l’Iraq, hanno fatto decidere Teheran di ritirarsi dallo scenario siriano. Ma non solo.
L’Iran ha allentato il suo appoggio agli Hezbollah in Libano, un Paese ora alle prese con una crisi economica, fra scelte errate, massiccia e costosa presenza sul suo territorio di profughi siriani e gli effetti finanziari devastanti della pandemia, che fanno della nazione dei Cedri uno Stato praticamente fallito (un debito pubblico al 170% del suo Pil) e con una popolazione, per la prima volta, in aperta e violenta opposizione proprio alle scelte di campo internazionali ed economiche del Partito di Dio sostenuto dall’Iran. Non da meno, a Gaza, Teheran ha chiuso i cordoni della borsa ad Hamas. Un altro vantaggio, benché temporaneo, ad Israele.
Il sogno della Mezzaluna sciita che aveva nel conflitto siriano il punto di arrivo si sta infrangendo, dunque, sulle macerie di un’economia iraniana fortemente indebolita a causa delle sanzioni statunitensi e del crollo del prezzo del petrolio sino a valori negativi come effetto del lockdown globale imposto dalla pandemia. Il Covid-19, potente e temuto nemico interno, si sta rivelando il miglior e più affidabile alleato esterno per Israele. E poi perché le guerre costano, e molto, ed ancor più se sono per una proiezione di potenza, lontano, troppo, dal proprio territorio nazionale. Non è rimasto all’Iran, il cui indebolimento militare nella regione è iniziato, a gennaio, con l’uccisione del gen. Soleimani, che tentare la via della guerra cibernetica, come accaduto il 24-25 aprile scorso con un attacco al sistema idrico nazionale israeliano (usando, tra l’altro, server statunitensi), tanto inaspettato da Tel Aviv quanto, fortunatamente, sventato.
Sono gli aspetti tattici delle nuove guerre ibride. Non da meno, quelli diplomatici si adattano. Il fatto che Assad abbia rinunciato all’appoggio dell’Iran ma che abbia anche contrastato con successo – almeno sino al cessate il fuoco – l’avanzata della Turchia nella regione, ha garantito a Damasco la riapertura di relazioni con Paesi della Lega Araba, e non solo l’Egitto, ma anche gli Emirati Arabi Uniti e altri che nel passato avevano sostenuto i ribelli jihadisti proprio contro il regime. Un colpo di spugna, su anni di guerra e migliaia di morti. Il prezzo che paga il suo popolo, ma un guadagno per Assad da riscuotere nell’immediato futuro. Assad necessita, infatti, di ingenti finanziamenti per la ricostruzione post-bellica e, soprattutto, per consolidare il proprio potere. Se all’interno ciò significa il duro scontro con membri della famiglia (con il cugino Rami Makhlouf, tycoon ricchissimo e potentissimo, deciso con ogni mezzo ad accaparrarsi contratti miliardari che il regime avrebbe invece promesso a committenti arabi del Golfo), all’estero significa per Assad raggiungere compromessi dalle conseguenze future, al momento imprevedibili ma quantomeno fosche.
È il caso del finanziamento da parte degli Emirati Arabi di 3 miliardi di dollari in cambio di una ripresa da parte di Damasco dei combattimenti contro le milizie filo-turche a Idlib, ma anche del reclutamento di miliziani fedeli ad Assad da inviare in Libia, grazie al supporto della russa Wagner, per combattere a fianco di Haftar. Un sollievo finanziario per la Siria e una soluzione che piace alla Russia, con cui Damasco sembra mantenere l’asse di ferro politico-militare fra l’allentamento di tensioni con numerosi paesi arabi e con Israele – tutti soggetti con cui Putin ha importanti e nuove intese per il futuro della regione – e, ora, il sostegno all’uomo forte della Cirenaica.
Ecco che ancora una volta vi è la conferma del doppio filo che lega i due conflitti, in Siria e in Libia. Non si tratta di cloni, perché ognuno ha portata geo-strategica e impieghi tattici completamente differenti. Tuttavia, i protagonisti sembrano replicarsi e, tolto di mezzo l’Iran (e quindi anche Israele), paiono esserci maggiori forze ed energie addestrate da mettere in campo. Obiettivo: contrastare la Turchia sul suolo libico. Ecco del perché a marzo il governo di Tobruk, legato ad Haftar, ha aperto un’ambasciata a Damasco con l’obiettivo di collaborare e unire le forze contro il Sultano turco, le cui ambizioni “africane”, fra cui la Somalia, fra l’altro, oltre alla Libia, sono ormai note. Un’ altra rappresentazione della guerra libica da tempo già delineata, ma ancora tutta da raffigurare con, sullo sfondo, le macerie di una devastata Siria e l’umiliazione di uno zoppo ex alleato, quell’Iran che, almeno per ora, pare essere in totale sbandamento.
댓글