Si è spento Gian Paolo Ormezzano
Aggiornamento: 17 ore fa
di Michele Ruggiero
Gian Paolo Ormezzano, uno dei più grandi narratori di sport del nostro giornalismo, ha chiuso la sua esistenza terrena all'età di 89 anni. Di Ormezzano non si contano le Olimpiadi cui aveva partecipato da inviato, né i campionati del mondo di calcio, o di qualunque altra grande manifestazione di sport, che seguiva lasciando sempre un'impronta personale che non era affidata soltanto al commento sportivo. Era un eclettico, dotato di una sterminata cultura in cui intingeva con stile la sua penna.
Penna raffinata. E di prima grandezza. Per di più arricchita da un verve dialettica che Sergio Zavoli fu tra i primi a cogliere così da reclutarlo in Tv per i suoi "Processo alla tappa", quando a scrivere e a parlare del Giro d'Italia versione Torriani, durante i fantastici anni Sessanta, c'erano i Gianni Brera, i Bruno Raschi, gli Enzo Biagi, e altri grandi giornalisti delle due ruote. Erano anni di un ciclismo oramai moderno, ma ancora ruspante, sanguigno, focoso con i suoi personaggi ognuno dei quali s'inventava o una personalissima lingua, come Vito Taccone, noto come "il camoscio d'Abruzzo", o una particolare storia come Franco Bitossi detto "cuore matto" per via dei suoi battiti che inaspettatamente potevano fibrillare in corsa, o, ancora, l'idealizzazione di una rivalità che da sempre affascina nel ciclismo che in quel decennio, dopo il dualismo Coppi-Bartoli degli anni Quaranta e Cinquanta, assunse i nomi di Felice Gimondi e Gianni Motta, forse meno prepotenti a contare le vittorie nel mondo, ma altrettanti bravi a scaldare la polemica tra i tifosi. In quella compagnia di compagnia di giro... giornalistica, Gianpaolo Ormezzano, classe 1935, inviato de Il Tuttosport dal mitico Giglio Panza, era il più giovane, ma non il meno acuto o il meno portato ad angolare le osservazioni da cui traeva linfa benefica della trasmissione che raccontava l'appuntamento di rigore a maggio del pomeriggio sul primo canale della Rai.
L'altro, di rigore, era la Coppa Davis di tennis di cui Ormezzano poteva scrivere volumi e parlare per ore, raccontando delle imprese di Nicola Pietrangeli che in quegli anni infiammava la terra già rossa con le sue sfide allo spagnolo Manuel Santana. Alla stessa stregua dell'atletica leggera, che a Torino si coniugava con Livio Berruti, l'oro di Roma 1960, e di Carlo Lievore, primatista del mondo nel lancio del giavellotto.
Infine, per "dovere" inevitabile nella città della Mole, i tasti della sua macchina da scrivere, nella redazione del quotidiano sportivo, all'epoca in corso Venezia, Borgo Vittoria, picchiettavano freneticamente - perché Ormezzano è sempre stato velocissimo nei suoi articoli - sulle cronache di calcio. Cronache disuguali almeno nella passione, con la sua squadra, il Toro, in balia delle onde di una società precaria, mentre la Juve viveva la coda di un periodo d'oro con Umberto Agnelli presidente, e una squadra condotta per mano a più scudetti dal capitano Boniperti, dal gigante buono, il gallese John Charles, e da Omar Sivori. Con quest'ultimo, El Cabézon, l'amicizia diventerà racconto di aneddoti divertenti e non, anche quando l'italo-argentino ritornerà in patria. E fu proprio in Argentina, durante i Mondiali del 1978, quelli sotto l'egida criminale della giunta militare del generale Videla e dell'ammiraglio Massera, che lui e Sivori furono fermati una sera da una squadra di agenti in borghese, uno dei famigerati squadroni della morte, interrogati senza tanti riguardi, nonostante le proteste di chi esibiva il tesserino di giornalista, e di chi non riusciva a capacitarsi di non essere riconosciuto. Quello, come ebbe a ricordare anni dopo lo stesso Ormezzano, rimase un episodio incancellabile per Sivori, che toccò in presa diretta gli effetti della perdita della libertà in Argentina.
Ancora un ritorno sugli anni Sessanta per un fotogramma strettamente personale: la 500 Fiat con cui Ormezzano si muoveva in città. Casualmente gli chiesi un passaggio ad un semaforo di corso Siracusa. Non ebbe difficoltà a farmi salire e fui anche fortunato, perché stava andando al giornale e la mia meta era corso Lecce, angolo via Pianezza. Ma, onestamente, pur di continuare a parlare con Ormezzano, dirgli che lo seguivo al Processo alla Tappa e sottolineare... che volevo fare il giornalista, avrei fatto il giro di Torino, senza meta alcuna. Tanti anni dopo, ebbi l'opportunità di restituirgli la cortesia, e soltanto in quella occasione riportai alla memoria l'episodio, di cui ovviamente la sua memoria non conservava traccia. Ma gli fece piacere, e me lo disse, di averglielo ricordato. Davvero una gentilezza.
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