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Settant'anni fa l'addio ad Alcide De Gasperi, "statista impareggiabile"

Aggiornamento: 20 ago

di Vice


La sua vita cambiò nel giro di dodici mesi. Gli ultimi. Vissuti tra cocenti sconfitte elettorali, delusioni politiche e "tradimenti" all'interno del suo partito, la Democrazia Cristiana. Alcide De Gasperi, lo statista nato nel Trentino nel 1881, quando ancora splendeva l'aquila bicipite dell'Impero asburgico, cattolico ma non subalterno alla Chiesa, né alla Curia d'oltre Tevere, chiudeva gli occhi nella sua casa in Val di Sella il 19 agosto del 1954. Settant'anni fa. Con lui se ne andava una delle più rilevanti figure dell'antifascismo e della politica italiana nel ritorno alla democrazia, dopo il Ventennio.

"Uno statista impareggiabile", lo ha definito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al vertice di sette governi, dal dopoguerra, con cui ha guidato la Ricostruzione. Quella Ricostruzione che aveva dato una prospettiva all'Italia uscita lacerata dalle vicende belliche, in una condizione di profonda miseria, economica ed anche morale, che aveva riportato i cattolici alla politica e a prendere in mano le redini del Paese in una controversa, per usare un eufemismo, fase internazionale.

La guerra d'aggressione fascista, parzialmente compensata dai venti mesi della Resistenza partigiana nata all'indomani dell'8 settembre 1943 insieme con l'orgogliosa partecipazione al conflitto contro i nazisti del ricostituito Regio esercito, aveva messo al bando l'Italia, una nazione che si era arresa senza condizione, mostrando i limiti dell'allora classe dirigente, della Corona e dei vertici militari, risultata un autentico bluff rispetto ai proclami apodittici con cui il Regime fascista l'aveva nutrita.

Alcide De Gaspari, in una proficua un'unità d'azione e di intenti con gli uomini della Costituente e dei partiti che avevano diretto la guerra di Liberazione, comunisti, socialisti, liberali, azionisti, fu colui che provvide a ridare dignità al nostro Paese. L'ambasciatore della nuova Italia e di quella che aveva in animo di presentarsi al mondo. Memorabile fu il suo discorso alla Conferenza di Pace a Parigi il 10 agosto del 1946 con cui riuscì a togliere dal profilo dei rappresentanti delle nazioni vittoriose quel velo di altezzosità cui nessuno voleva umanamente rinunciare, dopo anni di devastazioni, sofferenze, patimenti causati dall'Italia. Disse:

«Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l'essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.

[...] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire».

Fu un discorso da cui echeggiò immediatamente lo spirito europeista che ne avrebbe fatto uno dei Padri del Vecchio Continente unito, in cui si avvertì la lungimiranza (e il pragmatismo) di comprendere l'orizzonte futuro dell'Italia sul piano internazionale. Una visione che lo portò in quella stessa Conferenza di pace a chiedere l'ingresso italiano all'Onu, alle Nazioni Unite. Con identica lungimiranza, e con piena consapevolezza degli effetti collaterali che sarebbero ricaduti sull'Italia anche per gli impegni militari e la dipendenza economica e politica sottesi, non esitò a richiedere gli aiuti alimentari previsti dal Piano Marshall agli Stati Uniti. In cambio, estromise le sinistre dall'esecutivo, mentre Giuseppe Saragat aveva già contribuito a indebolire il Partito socialista con la scissione di Palazzo Barberini. Ma gli italiani erano ridotti allo stremo, alla fame, e qualunque altro distinguo sarebbe risultato accademico, salottiero, fuori posto e fuori tempo. Lo sapevano anche Pci e Psi, Togliatti e Nenni, che si opposero nel perimetro della propaganda, secondo costume e le regole del gioco di ieri e di oggi.

Ma la divisione del mondo, lo scontro tra l'America e l'Unione Sovietica di Stalin, con l'Italia saldamente piazzata nella sfera occidentale, siamo portati a credere che concretizzò forse in De Gasperi anche un anticomunismo radicale che non gli apparteneva, né lo rappresentava, almeno sul piano della dialettica interna per stile, tolleranza e formazione politica, fino a condividere con i poteri occulti e le potenze straniere quote di gestione del controllo di sicurezza interno che si manifesteranno in toto dagli anni Sessanta in avanti con la Strategia della Tensione, le stragi neofasciste e quelle di mafia.

Non a caso, sconfitto alle elezioni del 7 giugno 1953, in quella consultazione che prese il nome all'insegna della legge da lui voluta due mesi prima, e bollata dalla sinistre come "Legge truffa" perché attribuiva automaticamente il 65 per cento dei seggi alla lista o alla coalizione che avesse ottenuto più del 50 per cento dei voti, De Gaspari uscì fuori dai radar d'oltre Oceano. Dimissionario - il suo VII governo durò un mese, dal 16 luglio al 17 agosto 1953 - non era più funzionale agli interessi chi chi reclamava una nuova fase per l'Italia. E non a caso, come nelle migliori trame politiche che intrecciano scandali e gossip, ritornò alle cronache prepotentemente la vicenda della morte della giovane Wilma Montesi, una storia ricca di misteri e quindi di veleni che contribuì a marginalizzare per poi esautorare uno dei politici democristiani più vicino a a De Gasperi, il ministro degli Esteri Attilio Piccioni, mentre contribuiva a tormentarlo l'accusa mossagli dallo scrittore scrittore Giovanni Guareschi di aver chiesto agli alleati di bombardare la periferia di Roma nel 1944. Notizia che il Tribunale ritenne infondata, condannando Guareschi alla carcerazione. Una sentenza che non ne attenuò l'amarezza e la convinzione che il suo tempo si fosse esaurito.


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