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Se chiudono anche le aziende sane: il caso della Psa Pipes

Aggiornamento: 2 giorni fa

di Vice


"Io le aziende finora le ho sempre aperte, ma da oggi sono costretto a imparare a chiuderle". E' la frase che mai avrebbe pensato di dover pronunciare nella sua carriera l'ingegnere Giuseppe Scalenghe, ma che l'imprenditore, pochi anni sopra i settanta, si ritrova a ripetere in tutte le interviste concesse nelle ultime settimane a giornali e a tv private e pubblica che descrivono l'epilogo di una storia comune, purtroppo, a quella di numerose altre piccole e medie aziende. Anche se il suo presenta più di un distinguo in positivo, come vedremo.


Crollo delle commesse per la crisi auto

L'azienda in liquidazione è la Psa Pipes con sede a Nichelino. Da oltre un decennio in attività, non ha mai conosciuto bilanci in rosso fino alle 2022. In sostanza, è un'azienda sana che dovrebbe continuare a produrre e a dare lavoro. Ma il crollo delle commesse ha indotto l'ingegnere Scalenghe al drastico provvedimento. Del resto, non vi erano alternative, da quando il più importante committente, una società emiliana, anch'essa alle prese con la pesante crisi del settore automobilistico che sta mettendo in ginocchio l'indotto, ha deciso di far rientrare la produzione finora appaltata alla Psa Pipes.

Logica brutale di mercato: i fornitori di primo livello dei grandi produttori di auto sono costretti a tagliare le spese per rimanere competitivi ed evitare il crollo. Un cerchio destinato però a restringersi, mano mano che le vendite di auto calano. Gli effetti all'apparenza sono meno visibili e non destano un allarme diffuso, perché si tratta di piccole e medie aziende, se non dell'artigianato, costretta a licenziare qualche decina di lavoratori.

Ma, come diceva il grande Totò "è la somma che fa il totale". E quel totale, nell'industria italiana, smantellata o delocalizzata, comincia a preoccupare. Soprattutto, come denuncia l'ingegnere Scalenghe, perché si tende a voler sempre curare gli effetti, anziché intervenire sulle cause.

Nel caso della produzione automobilistica, l'imprenditore punta il dito sull'Unione Europea, responsabile di una scelta tecnica autolesionistica nell'imporre la soppressione dei motori endotermici entro il 2035.

"Il giudizio non può che essere severo, perché la modesta percentuale di inquinamento del Vecchio Continente, che è pari ad appena il 7 per cento nel mondo, avrebbe meritato un cronoprogramma spostato in avanti e, dunque, più prudente e a maggiore beneficio dei tecnici chiamati alla ricerca di soluzioni idonee per la transizione ecologica con lo sguardo sempre rivolto alla nostra economia, da sviluppare e non da uccidere".

All'opposto, prosegue la riflessione, la disoccupazione e l'inoccupazione con il sostegno degli ammortizzatori sociali sono diventati il volano di una crisi industriale senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale. La parola riconversione verso l'elettrico o altre forme di energia, tra l'altro, appare come una chimera perché richiede una scolarità e una cultura professionale deficitarie nel nostro Paese, che macina sempre più occupazione "povera" sotto il profilo salariale e contrattuale con tutte le implicazioni sociali di rinuncia alla crescita personale.


La denuncia: l'industria italiana vive in una "bolla"

E' l'altra immagine che titoli e commenti sulle statistiche non restituiscono con la dovuta onestà intellettuale, privilegiando invece le cifre ad effetto, cifre raramente disaggregate e calate nella realtà che dovrebbero contemplare la dinamica dei rapporti di lavoro (paghe legali e paghe in nero, rispetto degli orari e degli straordinari, sicurezza, ecc.).

Nell'immediato, le piccole e medie imprese dell'indotto automobilistico corrono il rischio del fallimento per mancanza di liquidità con tutte le nefaste conseguenze che si riversano in primo luogo su dipendenti e fornitori, attivando così un altro cortocircuito esiziale per il sistema.

Nel caso della Psa Pipes, come ha spiegato a più riprese il titolare, l'azienda si può permettere il "lusso" di essere liquidata perché negli undici anni di lavoro ha sempre (re)investito gli utili al suo interno ed oggi dispone di un patrimonio che supera il milione di euro con cui potrà pagare le spettanze ai 31 dipendenti e ai fornitori. Il che fa la differenza.

E qui si ritorna alla frase inziale, "all'imparare a chiudere le aziende". La cessazione dell'attività, spiega l'ingegnere Scalenghe, presuppone infatti per la società un costo pari a oltre 684mila euro, composto da tre voci: il ticket per il finanziamento della Naspi, il preavviso e il costo per i 75 giorni prevista dalla procedura. Con queste cifre, rapportate al numero di dipendenti, se una società arriva da anni di bilanci in rosso, si comprende che le probabilità di portare i libri in Tribunale aumentino. Ed è ciò che sta accadendo nell'industria italiana, è il commento finale dell'ingegnere Scalenghe: "si è in una bolla simile a quelle finanziarie drammaticamente note che prima o poi esploderà, mettendo a nudo il marcio che oggi si nasconde in vari modi sotto il tappeto".



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