"Riprendiamoci il voto libero"
di Giancarlo Rapetti
C’erano una volta le elezioni. Se si votava in una città, per esempio, si valutava se i Consiglieri e/o il Sindaco eletti erano adeguati al ruolo che dovevano svolgere, se la scelta degli elettori faceva presagire o meno una buona amministrazione. Poi i tempi sono cambiati. Adesso non conta più chi è stato eletto, il suo programma, la sua credibilità o meno. Adesso ogni elezione è un sondaggio sulla popolarità dell’inquilino o dell’inquilina di Palazzo Chigi, o sulle prospettive delle elezioni future, in un gioco continuo e ripetitivo in cui Achille non raggiunge mai la tartaruga. E’ anche un modo per pesare gli schieramenti, che per definizione sono due. E tanto peggio per chi non si riconosce nello schema: così più di metà degli elettori in Emilia-Romagna e poco meno di metà di quelli dell’Umbria non sono andati a votare. Con il che non si vuole dire che hanno ragione gli astenuti. Tra gli astenuti ci sono anche i qualunquisti complottisti, che non andrebbero a votare comunque. Così come tra i votanti non ci sono solo coloro che si identificano nelle opposte “curve”, ma anche quegli elettori che applicano il principio illustrato anni fa da Roberto Benigni: “tra due offerte pessime, c’è una peggiore dell’altra, e quindi una migliore dell’altra”.
Gli eletti, espressione di minoranze
Resta il fatto che i due Presidenti eletti sono espressione di minoranze; con un po’ più di margine rispetto a quanto accaduto in Liguria, ma il dato di fondo non cambia. Peccato, perché entrambi hanno buone credenziali. Michele De Pascale, nuovo Presidente dell’Emilia-Romagna, era Sindaco molto considerato di Ravenna. Stefania Proietti, nuova Presidente dell’Umbria, era Sindaco di Assisi, una piccola città “praticamente perfetta”, come Mary Poppins. Ma i commenti prevalenti si incentrano sul “resistibile” successo del campo largo, tralasciando che, facendo la somma delle varie componenti, i voti in valore assoluto in Emilia-Romagna sono nettamente diminuiti rispetto alla tornata precedente.
Nonostante i segnali che la realtà manifesta, il giovane gruppo dirigente che si è impadronito del PD, con una capacità e velocità di manovra che sembrano imparate alla scuola della Far-Right, continua e consolida la propria politica, che si può riassumere così: fare propria l’intera agenda del MoVimento 5 Stelle, puntando a recuperarne una parte dei voti. Una evidente sproporzione tra investimento e risultati, aiutata dal fatto che il citato gruppo dirigente ignora le ragioni fondative e le basi valoriali del partito che ha conquistato. Le leggi elettorali ipermaggioritarie, come quelle regionali, costringono a formare alleanze prima del voto, alleanze che hanno un unico punto di coesione, l’obiettivo di “vincere”, cioè di sconfiggere l’avversario. Poi cominciano i guai.
A destra il principio è lo stesso, ma i guai sono minori, per due motivi: la leadership indiscussa che si è imposta in quello schieramento e il disinteresse per gli atti di governo. Se si governa poco, facendo solo propaganda e dichiarazioni roboanti prive di effetto, i motivi di attrito sono limitati. L’ultimo esempio è il rinvio al 2027 della scelta su dove realizzare il deposito unico nazionale dei rifiuti nucleari. Sarà un caso, ma si tratta di una ulteriore decisione rinviata a dopo le prossime elezioni politiche.
A sinistra i guai si presentano più facilmente perché si tende a voler fare più cose (non importa se buone o cattive, che dipende dai punti di vista), e quindi maggiori sono i motivi di scontro. La prova regina è rappresentata dai due Governi Prodi, caduti entrambi in due anni per motivi interni alla coalizione. Fa tenerezza che Romano Prodi, persona di altissimo livello, uno degli esponenti più rilevanti della politica dell’Italia repubblicana, continui a sostenere i campi larghissimi per “vincere”. Vincere che cosa, esattamente? La spesa pubblica illimitata a debito, con annessa inflazione, unita a una spruzzata di cultura woke antioccidentale? Infatti, gli elettori “di centro” (usiamo questa definizione semplicistica) non si riconoscono in questo schema: alcuni si arrendono al “voto utile” e scelgono direttamente il PD, qualcuno si rivolge a Forza Italia, altri non vanno a votare. In pochi votano le liste in cui stanno più o meno camuffati e nascosti i candidati “centristi”. Questo accade nonostante il fatto che dai politici di quell’area vengano spesso discorsi importanti e utili per disegnare il futuro sviluppo del Paese e dell’Europa. Ma non sei credibile se ai discorsi alti fai seguire comportamenti e scelte quotidiane che contraddicono quei discorsi.
"Regole del gioco" confuse e sbagliate
Il nodo resta comunque sempre lo stesso: le leggi elettorali. I problemi della politica discendono da molti fattori: il primo è la natura umana, e bisogna rassegnarsi. Il secondo sono le regole del gioco: se le regole sono confuse, contorte e sbagliate, non ci potrà essere buon gioco. Le leggi elettorali vigenti hanno lo scopo surrettizio di eleggere gli esecutivi, lasciando un simulacro di rappresentanza, assai indebolita. Con il premierato si toglierebbe anche la finzione, la rappresentanza sarebbe cancellata anche formalmente. Crediamo a Giorgia Meloni quando dice che il premierato è “la madre di tutte le riforme”. Lì non ci può essere mediazione: l’elezione diretta dell’esecutivo è per definizione la negazione della rappresentanza plurale. Le due curve si scontrano, una prevale, spesso di poco o pochissimo, e prende tutto. Gli altri, cioè la maggioranza dei cittadini, devono tacere perché “non hanno vinto”.
Occorre invece recuperare il concetto base: le elezioni servono per eleggere i rappresentanti del popolo, in modo che tutte le componenti della società e dei territori abbiano una voce e possano contribuire alle definizione delle politiche e alla formazione delle leggi. L’esecutivo sarà formato da quelle componenti che hanno raggiunto l’accordo per un sufficiente programma comune, che può cambiare nel tempo per il sopravvenire di diverse circostanze. La durata degli esecutivi non dipende dai sistemi istituzionali: Angela Merkel è stata per sedici anni cancelliere della Repubblica Federale di Germania, con un sistema parlamentare simile al nostro, perché ha interpretato autorevolmente il punto di sintesi della politica tedesca (ed europea). Senza bisogno di premierati.
L’impegno per far funzionare meglio la politica è una fatica immane, una corsa a ostacoli in salita. Sembra un discorso astratto, che non appassiona. Eppure è la base di tutto: le leggi e gli atti di governo li fanno gli eletti. Se non ci preoccupiamo di come sono scelti, e chi sono, i nostri rappresentanti, non avremo voce su nessun altro tema, che sia la salute o la scuola, il lavoro o le tasse, la sicurezza o i trasporti, la pace o la guerra. Non desistiamo. Non è detto che basti, ma la crisi della democrazia è evidente e va curata. Il primo passo consiste nel restituire all’elettore il voto libero, per consentirgli di scegliere il meglio, anziché costringerlo a scegliere il meno peggio.
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