Riduzione a 35 ore: alla ricerca dell'equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro
di Ferruccio Marengo
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in un recente articolo su La porta di vetro[1] Gaetano Errigo richiama la necessità di ridurre, a parità di retribuzione. l’orario di lavoro. Si tratta di un’ipotesi condivisibile che, se attuata, consentirebbe di ampliare il tempo di non lavoro di ciascuno, assicurando un’equa distribuzione dei benefici derivanti dall’aumento della produttività. Non da ultimo, avrebbe il merito di affermare, in contrasto con un senso comune ormai prevalente, che non esiste una correlazione necessaria, ‘naturale’, tra crescita della produttività e aumento dei consumi individuali. L’incremento della capacità produttiva non porta necessariamente al sovraffollamento dei centri commerciali. Può essere impiegata non soltanto per aumentare il consumo di abiti e cibi ‘esotici’, ma per accrescere beni comuni come la salute e l’istruzione, o, come nel caso in discussione, per ridurre il tempo dedicato al lavoro.
Il contrasto al consumismo come oggi lo conosciamo, funzionale a un particolare modello di sviluppo e sostenuto da un dilagante ‘feticismo delle merci’, non può però essere condotto con un approccio ‘luddistico’ venato da ispirazioni bucoliche, impraticabile e perdente; ma, al contrario, con la consapevolezza che proprio la crescita della capacità produttiva può ampliare il campo delle scelte possibili. Nello stesso tempo, occorre mettere in discussione la visione secondo cui il tempo di lavoro è il tempo della sofferenza contrapposto al tempo del non lavoro, percepito come area di libertà, gratificazione e piacere. Se il tempo di lavoro è oggi in gran parte tempo ‘alienato’, nel quale il lavoratore è privato del controllo di cosa e come produce, ciò è tanto più grave in quanto il lavoro rimane - o dovrebbe rimanere - la massima espressione personale e sociale del lavoratore stresso.
La trasformazione del lavoro in azione del tutto strumentale, condotta al solo fine di ottenere un compenso (o una merce), è alla base del lavoro alienato e tende, con ciò, ad annullare la dignità del lavoratore e la sua possibilità di concorrere consapevolmente e responsabilmente al bene comune. La sola riduzione del tempo di lavoro, anche se desiderabile e necessaria per altre ragioni, non può essere il rimedio a questa forma di alienazione. Sull’altro versante occorre domandarsi in che misura il tempo di non lavoro non sia anch’esso tempo alienato dal momento che il sistema distributivo e quello dell’intrattenimento tendono a imporre una dilatazione dei tempi di non lavoro dedicati al consumo. E lo fanno, tra l’altro, anche attraverso la propagazione di modelli frenetici di vita, assunti come indicatori di soddisfazione individuale e prestigio sociale: è tanto più felice e apprezzato chi conduce una vita ‘a perdifiato’, dove la sequenza infinita e inesauribile degli impegni degni di essere giudicati importanti riguardano l’acquisto di merci, le cene al ristorante, i fine settimana a sciare o in riviera, i viaggi in resort più o meno esotici e così via.
Attività, s’intende, per nulla disdicevoli, ma selezionate in base alla loro efficacia nel ‘far girare l’economia’. Un’efficacia che deve però fare i conti con due ostacoli: la quantità limitata del tempo di non lavoro e la tendenza, ancora (troppo) presente, a occuparsi dell’educazione dei figli, della cura di chi ci sta accanto o della comunità nella quale viviamo (attività che, seppur nobili, pare abbiano il difetto di produrre poca ‘ricchezza’, almeno in tempi brevi).
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