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Davide Rigallo

Razzismo cento anni fa: l’attualità di Kafka

Aggiornamento: 13 apr 2023

di Davide Rigallo

Il fumo della xenofobia passa sovente per fessure insospettabili. Nel corpo dei racconti di Franz Kafka, Un vecchio foglio (1917) sorprende per la lucida radiografia che ci offre delle logiche xenofobe e identitarie. Una lucidità che non tradisce condanne, opzioni morali o, men che meno, politiche; che fotografa il mondo nella sua intollerabilità e nell’impossibilità di uscirne. Del resto, è abbastanza risaputo: se andiamo in cerca di speranze o di rivoluzioni, Kafka non fa al caso nostro. Nell’edizione tascabile Garzanti supera di poco le tre pagine. Scavate, asciutte, essenziali, tipicamente “kafkiane”. Si direbbe che ci sia stata molta negligenza nelle misure prese per la difesa della nostra patria. Il racconto esordisce così: con la voce di un calzolaio che dalla sua bottega vede e descrive il crescente arrivo di forestieri – nomadi (!) – nella capitale e le conseguenze del loro impatto. Parlare con i nomadi è impossibile. […] Al nostro modo di vita, alle nostre istituzioni guardano con altrettanta ottusità quanta indifferenza. […] Non si può dire che ricorrano alla violenza: basta che mettano la mano su una cosa e ciascuno si fa da parte e gliela abbandona. Ai nomadi immigrati nella città vengono attribuiti caratteri da animali – la loro lingua sembra un incomprensibile gracidare di cornacchie -, comportamenti belluini – come quello di scorticare un bue vivo e mangiarne in pubblico la carne -, atteggiamenti fisicamente ributtanti – smorfie, contrazioni spastiche, bava alla bocca. Non è che con questo vogliano dire qualcosa e nemmeno spaventare; lo fanno perché è la loro natura, suggella la voce del calzolaio, a mo’ di spiegazione. Il repertorio degli argomenti che espone è indubbiamente di tipo razzista. Nelle sue parole troviamo, infatti, alcuni degli ingredienti ricorrenti del razzismo più comune (dalle comparazioni degradanti rivolte ai nomadi alla sottesa convinzione di una superiorità civile degli abitanti della capitale), quello, per intenderci, che s’innesta su sentimenti preconcetti di xenofobia per costruirvi sopra, a scudo, un armamentario logico. Il terreno del suo discorso non è, infatti, quello scomposto dell’emotività, ma quello logico, dimostrativo, ordinatamente razionale. È ragionando su questo piano che il calzolaio arriva a consegnarci la seguente conclusione: È stato il palazzo imperiale ad attirare i nomadi, ma adesso non sa come fare a ricacciarli. […] A noi artigiani e bottegai è affidata la salvezza della patria; ma noi non siamo pari a un simile compito, né mai abbiamo preteso di esserlo. C’è un malinteso, e per causa sua finiremo in rovina. Troppo spesso si attribuisce all’opera letteraria di Kafka un valore allusivo e profetico che finisce per scardinarla dal contesto storico e culturale in cui è prodotta, facendone qualcosa di assoluto, metafisico, universale. Ci si dimentica della sua appartenenza alla coscienza europea, a quella tensione storica che si consuma fra la costruzione di un’identità culturale ben perimetrata (e quindi chiusa) e il valore universale dei diritti. Una tensione tuttora irrisolta, che emerge bene nelle argomentazioni razziste e xenofobe del calzolaio di Un vecchio foglio. Sostituendo le parole del calzolaio con i principi che porteranno, di lì a pochi anni, al fascismo, al nazismo, alle persecuzioni contro le tante categorie di “indesiderabili” , si comprende bene come il “profetismo” kafkiano, lungi dall’essere astratto, affondi nel lato più tragico della storia del Novecento. E non solo. A distanza di oltre un secolo, non è difficile infatti riscontrare analogie con molti atteggiamenti, che nell’Europa odierna, sono stati diretti contro i migranti. Come i nomadi del racconto kafkiano, gli immigrati sono considerati essenzialmente come un problema di ordine sociale, mentre la sicurezza (leggasi: ordine, tranquillità, staticità) come un diritto solo degli stanziali, non dei forestieri. Le responsabilità delle conseguenze degli arrivi vengono additate alle autorità (il palazzo imperiale nel testo; l’Unione europea, i governi, le amministrazioni locali nella realtà odierna), colpevoli di non avere preso misure sufficienti per difendere la patria, di non avere sorvegliato adeguatamente le frontiere, di non essere più in grado di ricacciare i nomadi da dove sono venuti. Per l’Europa di oggi come per il calzolaio di Kafka un secolo fa, le migrazioni sono un macroscopico malinteso che rischia di condurre la collettività stanziale alla rovina. L’aspetto assurdo del contesto, il caos diventato paradossalmente consuetudine, il “torto” della situazione sono da individuarsi nell’inerzia tollerante delle autorità verso i migranti, nella mancata protezione dei luoghi della capitale, nell’assenza di azioni di contrasto volte ad arginare i flussi di stranieri. Per contro, la ragionevolezza, la logica, la giustizia oltraggiata sta tutta negli abitanti della capitale, vittime dell’irrazionalità degli arrivi migratori. La scrittura kafkiana fotografa xenofobia e razzismo, ma non offre antidoti per contrastarli. Pone il problema, ma non si preoccupa di risolverlo. Dice l’indicibile, e l’indicibile è spesso intimamente contradditorio e incoerente. Abbiamo già ricordato come l’opera di Franz Kafka appartenga alla coscienza europea del novecento: tuttavia, non la esaurisce. Proprio pochi anni prima della stesura di Un vecchio foglio, il filosofo tedesco Georg Simmel pubblicava il suo Excursus sullo straniero (1908) , nel quale la figura dello “straniero” veniva riconosciuta come una “presenza” organica nelle società, prima di essere analizzata nelle sue diverse tipologie. Si tratta di una contemporaneità significativa, che mostra come la coscienza europea non sia mai stata univoca e il suo sviluppo sia stato sempre figlio di opzioni: di valori, di progetti, di diritti. All’Europa che considera migranti e minoranze come un pericolo per la trama sociale, è sempre andata opponendosi un’altra che, viceversa, riconosce la loro strutturale presenza e favorisce la loro inclusione. Agli albori del XX secolo come nell’Unione europea di oggi, a un secolo di distanza: la costruzione di una società senza discriminazioni rimane una progetto in gran parte ancora da realizzare. Con l’auspicio che non diventi anch’esso “un malinteso”.


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