Quel giorno di dolore, nel ricordo di Aldo Moro
Aggiornamento: 16 mar 2023
di Michele Ruggiero
Martedì 9 maggio 1978, il corpo senza vita del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 color rosso, in via Caetani a Roma. Nella spasmodica ricerca di una simbologia che aiutasse a superare lo shock, ci si affrettò a sottolineare, e così sarebbe stato ripetuto per anni, con una litania sempre più dolente man mano che ci si allontanava da quella data, che la strada dei nobili Caetani era equidistante tra la sede della Dc in piazza del Gesù, e quella del Partito comunista italiano, in via delle Botteghe Oscure. Nulla poteva e doveva essere casuale.
Esattamente come l’assassinio dell’onorevole Aldo Moro, lo statista che più di altri aveva cercato una soluzione alla democrazia bloccata del nostro Paese, in cui anche chi avrebbe dovuto essere alternativo, il Pci, era il primo ad essere bloccato dall’essere e non essere, sospeso tra le sue origini e il suo presente, “in mezzo al guado” come aveva scritto uno dei suoi dirigenti più autorevoli.
Quando la morte di Aldo Moro fu fissata dall’obiettivo del fotografo dell’Ansa Rolando Fava e dalle riprese televisive, la pietas umana scese su quel corpo rannicchiato, fisicamente ucciso dai colpi di mitra, interiormente fiaccato da 55 giorni nelle prigioni delle Brigate Rosse, prigioni del Popolo secondo i carcerieri, ma che il popolo per primo non riconosceva e non avrebbe mai riconosciuto, come anni dopo ammise Mario Moretti, il capo delle Br, carnefice di Aldo Moro.
La reazione del Paese fu immediata. Dalle fabbriche e dagli uffici arrivò con lo sciopero e manifestazioni pubbliche nelle piazze. La condanna del terrorismo fu netta e precisa, come in quel il 16 marzo, giorno del rapimento di Aldo Moro e dell’annientamento della scorta. Dal basso si levò alta la voce di chi denunciava il disegno dei terroristi: dividere il Paese, destabilizzarlo, eternizzare il senso dell’emergenza, accettare come regola l’eccezione. In parte, quel disegno è riuscito.
Riuscì nelle piccole e grandi cose. Ma, avvenne anche il suo contrario: vi furono cose apparentemente piccole destinate a diventare grandi per il coraggio e la cocciutaggine di pochi. Già in quello stesso 9 maggio 1978. Come per la verità sull’omicidio di Peppino Impastato che avvenne nelle ore antelucane a Cinisi, in provincia di Palermo, feudo del mafioso Gaetano Badalamenti, quando il corpo del giornalista militante di Democrazia Proletaria venne ritrovato dilaniato dal tritolo vicino ai binari ferroviari. Nell’indifferenza generale la fine di Peppino Impastato fu attribuita ad un attentato terroristico in cui l’autore era rimasto vittima. Poi la versione si trasformò in “suicidio”. Soltanto nei primi anni Duemila fu riconosciuta la responsabilità di Badalamenti e dei suoi prezzolati sicari mafiosi.
L’effetto politico di quel 9 maggio del 1978 fu traumatico per il Paese. Il processo avviato dall’esponente più autorevole della Democrazia Cristiana, il principio di solidarietà nazionale per dare una prospettiva politica al Paese, esaurì la sua spinta propulsiva all’inizio del 1979. Nulla fu più come prima. Neppure per i due grandi partiti, Dc e Pci. Entrambi erano messi all’angolo da una crisi di cui erano consapevoli, ma altrettanto incapaci di uscirne fuori, rompendo schemi che altri avevano costruito. La complessità del mondo precipitò a valle come una valanga sull’Italia, anello debole dell’Occidente dall’economia instabile con una inflazione a doppia cifra. Con la morte di Aldo Moro il possibile divenne impossibile.
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