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Quarant'anni fa, il "ritorno" a casa del nazista Walter Reder

Vice

Poche o tante le analogie con il caso Almasri, identico il senso di beffa


di Vice


Era l'ultimo detenuto nel carcere militare di Gaeta, quando il 24 gennaio 1985 Walter Reder, classe 1915, maggiore delle SS, in cui si era arruolato giovanissimo nel 1932, salutò la cella che era stata la sua casa per più di trent'anni. In quella spaventosa fortezza angioina, il cui nome almeno una volta durante la naja aveva intimidito i soldati di leva, Reder era preda di una incalcolabile solitudine, da quando Herbert Kappler, ospite dal 1948, aveva preso la strada dell'ospedale militare del Celio. Il suo era un carcere nel carcere. Né concorreva ad alleviare i suoi incubi ad occhi aperti l'intensa corrispondenza che intratteneva con centinaia di suoi ammiratori e qualche ammiratrice, dello schizzato mondo neonazista, tedesco e austriaco. Gli unici e rari dialoghi era quelli con i suoi carcerieri, formali e rivolti alle esigenze e bisogni del presente, ma deprivati del passato e soprattutto della speranza di un futuro di libertà.


Del carcere, Walter Reder oramai conosceva a memoria ogni centimetro quadrato della sua confortevole cella, non pari comunque a quella di Kappler, e dal punto più alto del forte, non avevano segreti per lui ogni possibile angolazione da cui ammirare uno dei più magnifici golfi del Tirreno. Era stato condannato all'ergastolo con sentenza emessa nel 1951 dal Tribunale militare di Bologna per le stragi di civili perpetrate tra l'agosto e l'ottobre del 1944 nei territori dell'Appennino tosco-emiliano, nei comuni Sant'Anna di Stazzema, Vinca e Marzabotto.

Reder, con le sue SS in ritirata, su ordine del feldmaresciallo Kesselring, comandante della truppe tedesche in Italia, aveva seminato il terrore, massacrando donne, vecchi e bambini: 1836 persone uccise, molte bruciate vive, altre squartate con la baionetta, altre ancora chiuse nei fienili e fatte saltare in aria con le bombe a mano, una ferocia inimmaginabile. Tra i primi a venire a conoscenza della dimensione del massacro e delle efferatezze naziste era stata la Chiesa cattolica per iniziativa nel 1945 dell'allora Cardinale di Bologna Giovanni Battista Nasalli Rocca di Corneliano, che aveva incaricato di raccogliere una prima e organica documentazione alla signora Mary Toffoletto Romagnoli che ricordava anche la morte dei tre sacerdoti della Parrocchie di San Martino e Casaglia di Caprara, trucidati dai criminali in divisa. La solitudine gli era diventata compagna nel 1976, quando l'altro prigioniero, Herbert Kappler, il responsabile del massacro delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento degli ebrei, era agli sgocciali per un cancro al colon in stato avanzato. Diagnosi che aveva favorito il suo ricovero all'Ospedale militare del Celio.

Ultimi giorni, mesi, di vita per il comandante della Gestapo a Roma, che invocavano la pietas umana della scarcerazione. Una richiesta che arrivava pressante da Bonn ogni qualvolta il nostro governo chiedeva aiuto per uscire da una delle più gravi crisi monetarie del dopoguerra. Do ut des, locuzione latina da asso di briscola in mano per la Germania federale da gettare sul tavolo del negoziato anche con qualche oncia di cinico compiacimento nel vedere gli alleati di un tempo costretti ad inchinarsi alla ragione di Stato, un po' come è accaduto con l'affaire Najeem Osema Almasri Habish, il presunto assassino e torturatore libico. Le storie sembrano sempre eguali, anche se hanno nomi diversi e, per una macabra contabilità, il numero dei morti e degli offesi.

Fu così che Reder, con cui Kappler manteneva una distanza che andava oltre la gerarchia militare, ma che rimaneva comunque l'unico con cui parlare nella lingua madre, lesse della fuga del suo superiore dal Celio nel giorno più idoneo alle distrazioni, il 15 di agosto. Distrazioni che si portarono in dote le dimissioni del ministro della Difesa Vito Lattanzio, seguite da una serie di ridicole bugie, prima tra tutte, la più improbabile: Kappler era stato trasportato in una valigia dalla moglie Anneliese. Menzogne per celare quanto di più ordinario avviene in quelle circostanze: uno scambio di favori tra intelligence, magari con qualche ingrediente del passato, vecchi arnesi del regime fascista, mai arrugginiti, come hanno messo in evidenza Stefania Limiti e Aldo Giannuli nelle loro ricerche.

Nel 1980, Reder si era visto ridurre dal Tribunale la pena a trent'anni. Gli sembrò un diritto accarezzare la speranza del ritorno a casa in Austria, non nel suo paese d'origine che apparteneva alla Cecoslovacchia dalla dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico.

Quattro anni dopo, alla fine del 1984, avvertiva la sensazione del passaggio dalla speranza alla certezza del rilascio. Reale. Concreta. Non come trent'anni prima, nell'estate del 1954, quando le voci di una possibile amnistia, gli avevano fatto terra bruciata attorno, coinvolgendo anche alti papaveri austriaci, di cui si sospettava fossero parenti di altri ufficiali delle SS ricercati dalla giustizia italiana. I quotidiani, soprattutto di sinistra, avevano contribuito ad alimentare la protesta con il racconto di insistenti pressioni e patteggiamenti del governo austriaco, mediante il ministero degli Esteri. Era uno stillicidio di notizie che di anno in anno gli provocava momenti di sconforto, come nel 1957, con il mondo che seguiva con trepidazione le sorti della cagnetta Laika in orbita nello spazio e il ministro degli Esteri austriaco Graz in visita all'Italia che aveva fatto appello "ai nobili sentimenti degli italiani e soprattutto a quelli delle madri italiane" per il dolore della vecchia madre della quale era unico figlio. Parole che gli si erano ritorte contro. I morti di Sant'Anna, Vinca e Marzabotto erano rimasti in silenzio. Stesso epilogo nel 1971, dopo che un lettore austriaco dell'Unità aveva denunciato le manovre, sempre austriache, per liberarlo, attraverso il ministro degli Esteri Kurt Waldheim, non ancora presidente e, soprattutto, non ancora smascherato del suo passato nazista. Waldheim era stato invitato dal Consiglio dei ministri a premere sull'Italia per arrivare a una soluzione positiva. La lettera si era rivelata però un potente detonatore per (ri)sollevare il suo caso al rovescio, e accusare ad un tempo l'Austria di comportamento vergognoso per aver usato la frase "presunti crimini di guerra" in rapporto alla sua condanna.

A cavallo tra il 1984 e il 1985, Reder andò all'attacco e affermò con una lettera all'Ansa e ai parenti delle vittime di Marzabotto che l'accusa di essere responsabile di 1.830 era "una colossale bugia storica e giuridica". Lui si riconosceva colpevole "soltanto" di 270. L'addio a Gaeta era nell'aria. Il 24 gennaio del 1985, mentre imperversava lo scandalo Eni-Petromin (una tangente di oltre 20 miliardi di lire su una fornitura all'Italia di petrolio dall'Arabia Saudita, oggi come ieri sempre molto generosa...) l'indignazione e sdegno montarono nel Paese all'oscuro delle trattative per trasferire Reder in Austria. Il 25, alcuni quotidiani bollarono l'accordo come una perfetta "evasione legale", decisa in tempi rapidi dall'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi e coordinata dai nostri servizi segreti insieme agli omologhi austriaci. L'ex maggiore delle SS era stato preso in consegna dall'antica fortezza del Regno delle due Sicilie, portato in auto all'aeroporto militare di Ciampino e imbarcato, non su un volo di Stato utilizzato per Almasri, ma su un più modesto bireattore «Falcon» utilizzato all'epoca dalla nostra intelligence, con destinazione aeroporto di Graz.

Meno "modesta" fu l'accoglienza che gli venne riservata in patria. Al fondo della scaletta dell'aereo, lesto nell'afferrargli la mano, c'era il ministro della Difesa Friedhelm Frischenschlager, liberale, 42 anni, che il giorno dopo si ritrovò al centro di una feroce polemica con alcuni membri del suo stesso governo, in primis il ministro socialista dell'Interno Karl Blecha, che ne chiese inutilmente le dimissioni. Anni dopo, Frischenschlager, che oggi è uno dei sette vicepresidenti del Movimento Europea Austria, ebbe modo di rammaricarsi per le critiche ricevute, sostenendo che proprio dal caso Reder l'Austria avesse avviato una revisione del suo passato nazionalsocialista, dall'apparizione dei primi movimenti filo nazisti all'Anschluss del 1938. Un imbarazzato Bettino Craxi, ascoltato dalla Commissione parlamentare di Vigilanza, provò ad arginare la rabbia dei famigliari delle vittime di Marzabotto, dell'Anpi, la reazione politica delle opposizioni in Parlamento e il sentimento popolare di incredulità mista a sconcerto per la liberazione del responsabile della più grande strage nazista in Italia, spostando il discorso con una serie di contorte argomentazioni ora sull'azione legittima e "non subalterna" dei servizi segreti rispetto a quelli dell'Alleanza Atlantica, ora ricordando la deliberazione di un Consiglio dei ministri (ignaro degli avvenimenti) non per la liberazione dell'ufficiale delle SS, ma per la sua consegna alle autorità austriache, impegnate a proseguire la custodia sino al termine previste.

Chi ricorse alla storia, materia che padroneggiava ad arte, per una difesa d'ufficio del Presidente del consiglio, fu l'allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini. L'ex direttore del Corriere della Sera, criticò severamente Frischenschlager durante una conferenza tenuta a New York, alla Columbia University, su - singolare coincidenza - "L'Italia, il Mediterraneo e l'Alleanza Atlantica". In quella prestigiosa sede, Spadolini definì in prima battuta l'atteggiamento del suo collega austriaco non corrispondente allo spirito dell'iniziativa craxiana, secondo la consolidata tradizione politica e non che nei contenziosi sono sempre gli altri a non aver capito. Per aggiungere poi chiarezza alla sua critica, Spadolini specificò che con quel gesto (la stretta di mano) Frischenschlager stabiliva una successione storica falsa, perché l'annessione dell'Austria alla Germania nazista nel 1938 non aveva prodotto alcuna continuità giuridica e morale tra il paese al cui servizio era stato Reder e quello nel cui seno era tornato. A quel punto, soltanto il ricordo delle vittime impedì ai più di dare credibilità a una farsa, la stessa che percepiamo nuovamente oggi, anche se per motivazioni diverse. Il nazista Reder è morto nel 1991, all'età di 76 anni, dopo avere ritrattato il suo pentimento per le stragi compiute.





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