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Rocco Larizza

"Quando Ugo Pecchioli mi passò il testimone di Senatore"

di Rocco Larizza


Sono stato eletto Senatore della Repubblica nella XII legislatura, il voto del 27 e 28 marzo 1994 che portò a Palazzo Chigi, ma per meno di un anno, l'allora cavaliere Silvio Berlusconi. Furono le prime elezioni, dal 1972, senza più Ugo Pecchioli candidato. Per una serie di circostanze, fui scelto a sostituirlo. Ma se voglio sistematizzare i miei ricordi nel centenario della sua nascita, devo fare alcuni passi indietro, e riprendere il discorso dal 5 e dal 6 aprile 1992, elezioni politiche per il rinnovo del Parlamento, quelle che avrebbero dato vita all'XI legislatura. La più breve della storia repubblicana: appena 722 giorni, con cui sarebbe chiuso il ciclo della cosiddetta Prima Repubblica. In quella campagna elettorale il Pds mi aveva candidato nelle sue liste a Torino e alla conta dei voti risultai il primo degli esclusi. Ma ero in una posizione di speranzosa attesa, perché nel capoluogo piemontese come a Bologna e a Roma, era stato eletto il segretario generale del Pds, Achille Occhetto. Il mio destino, come quello di un altro candidato, dunque, era nelle sue mani. Toccava soltanto a lui decidere la circoscrizione. Una sera, nel corso di una riunione della federazione torinese, arrivò una telefonata da Roma. Dall'altro capo c'era Ugo Pecchioli, riconfermato senatore, che mi disse semplicemente: "Ti comunico che sei l'onorevole Larizza".

Nel passato i miei rapporti con Ugo Pecchioli, che ha sempre tenuto un dialogo stretto con Torino, si erano consolidati soprattutto affrontando il tema scottante del terrorismo. Cruciale era in quegli anni capire la natura della violenza terroristica e l'impatto che essa aveva non solo nell'opinione pubblica, ma soprattutto nel mondo del lavoro, tra gli operai, in particolare.

Dal 1977 ero alla Fiat di Mirafiori e mi occupavo, assieme ad altri bravi compagni, della grande fabbrica per conto della Federazione torinese del PCI. Chi ha memoria sa che cosa ha significato in quegli anni e in quelli successivi fare i conti col fenomeno terroristico: c'era l'esigenza di interpretare e orientare, ma la questione prioritaria consisteva nel contrastare e superare l'indifferenza dei lavoratori e convincerli a essere protagonisti della lotta per la difesa dei valori democratici, anziché lasciarsi sedurre dalle azioni dei terroristi che intimidivano e colpivano capi e quadri intermedi della Fiat e aziende satelliti con il piombo di mitra e pistole, sparando alle gambe, fino a lasciarli agonizzanti in fin di vita per dissanguamento.

In quel contesto, il nostro riferimento nazionale fu Ugo Pecchioli, dal quale fui coinvolto costantemente per il mio ruolo in fabbrica, per l'esigenza di avere le cosiddette antenne sul territorio e la necessità di non spezzare il legame con quelle frange della classe operaia che si erano mostrate tiepide, se non addirittura mute o neutre, all'indomani dell'attentato al vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno, morto dopo tredici giorni di agonia il 29 novembre del 1977. Fu un momento di grande inquietudine per Torino e il Paese, soprattutto per la sinistra, reso pubblico dall'inchiesta e dalle interviste di Gianpaolo Pansa ai cancelli di Mirafiori, con tanti, troppi operai che sfuggivano al taccuino per sottrarsi alla condanna dell'eversione terroristica.

Ma fu proprio in quella fase di acuto disagio, estremamente controverso, in cui le relazioni in fabbrica scadevano anche nell'ambiguità e aumentavano le zone d'ombra, che si realizzò l'importanza di avere una guida di spessa caratura come Ugo Pecchioli alla testa del contrasto al terrorismo e che a bollare il fenomeno eversivo che si dichiarava di sinistra ci fosse un uomo che la lotta armata l'aveva praticata contro i nazifascisti, ma che la rifiutava nella dimensione democratica senza incertezze. Personalmente, ne raccolsi un'esperienza umana e politica di prima grandezza, e non è un'affermazione di circostanza oggi che ne ricordiamo il centenario della nascita.

I rapporti con Pecchioli si consolidarono nel corso degli anni successivi, vuoi perché Torino rimaneva la sua patria d'elezione, e non soltanto nel senso letterale del termine, vuoi per la sua naturale curiosità a comprendere i problemi del lavoro e del territorio e per il tradizionale costume di evitare facile scorciatoie nelle valutazioni politiche; una lezione appresa nella dura esperienza degli anni Cinquanta, nell'esperienza alla Fgci, e successivamente da numero uno del Pci della provincia di Torino, che spesso lo portava ad organizzare riunioni ristrette per preparare le discussioni pubbliche.

La legislatura avviata nel 1992, come ho ricordato sopra, ebbe vita breve e fu sconvolta da Tangentopoli e dall'attacco della mafia alla magistratura con gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino e allo Stato con più attentati a colpi di tritolo.

Dopo solo due anni si ritornò al voto. In quella occasione Pecchioli annunciò a Occhetto che non si sarebbe più ripresentato; così, per quel Collegio senatoriale, comprendente tutta la parte nord di Torino che fin ad allora lo aveva sempre eletto dal 1972, il Pds avanzò la proposta della mia candidatura con il suo pieno sostegno. Ma, anche in quella circostanza, come in altre, non si limitò alle parole, ma volle aprire la mia campagna elettorale. Fu per me un onore e un'emozione che non ho dimenticato.

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