Quando il "25 aprile" divenne legge dell'Italia repubblicana
- Vice
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di Vice

Era il 22 aprile del 1946, quando il governo provvisorio dell'Italia liberata, sotto la presidenza del consiglio di Alcide De Gasperi, stabilì con Regio decreto l'istituzione della Festa nazionale del 25 aprile, il giorno della Liberazione, simbolo di una guerra di popolo contro il nazifascismo e della partecipazione dell'Esercito italiano accanto alle forze anglo-americane che risalivano la penisola combattendo contro la Wermacht tedesca.
Nel 1947, alla vigilia della celebrazione, il governo reiterò il decreto. Il giorno successivo, nel discorso celebrativo, il presidente del consiglio Alcide De Gasperi, rese omaggio "ai caduti, ai combattenti, alle vittime dell’oppressione e della persecuzione che furono senza numero e, come antico membro del Comitato di liberazione nazionale" sottolineò la sua "riconoscente memoria a tutte le forze armate della resistenza che contribuirono alla cacciata del nemico e alla ricostruzione della patria", per poi aggiungere che nei lunghi mesi dell’attesa, nelle peripezie della vita clandestina, passando da rifugio a rifugio, [gli italiani] si erano abituati alle privazioni, abituati alla vita rischiosa, e non ultimo "educati alla solidarietà democratica e nazionale".
Il discorso celebrativo del 25 aprile 1947
De Gasperi con estrema lungimiranza, consapevole dei rischi che il deterioramento della memoria produce nel corpo collettivo rispetto ai valori e ai principi, ricordò nel discorso che tenne a Roma su piazza del Campidoglio, che "Le virtù della resistenza devono essere anche le virtù di oggi: spirito di abnegazione, fermezza di propositi, solidarietà di intenti. Vi è oggi un dovere di resistenza civile che non è meno necessario di quello della resistenza contro l’oppressione. Bisogna resistere contro la demagogia della vita facile e frasaiola, come contro le tentazioni delle speculazioni, dello sperpero e dell’egoismo brutale. Inspirandosi alla resistenza che unì due anni fa tutte le classi e tutti i partiti bisogna oggi resistere contro la sfiducia e lo scoramento, bisogna battersi solidarmente contro le difficoltà economiche, di oggi e di domani, bisogna ripetere al popolo italiano una parola di fede ma anche un richiamo severo, se pur confidente. Le Nazioni Unite che hanno compiuto con grandi perdite di uomini e immenso dispendio di beni la liberazione dell’Italia, sappiano che, come allora abbiamo cooperato alla vittoria, così oggi il popolo italiano intende consolidare la democrazia in solidarietà e libertà non solo in casa propria, ma è anche pronto a dare il suo contributo alla pacifica ricostruzione del mondo."
La legge 27 maggio 1949, n. 260
Parole quantomai attuali ieri come oggi per il nostro Paese, che procede verso la celebrazione dell'80° della Liberazione, in cui circolano spinte mai tramontate a formulare assetti istituzionali che hanno parentela prossima più con l'ipotesi di Stato autoritario, che con la Resistenza, con la Costituzione e con il confronto parlamentare, e in cui alberga un palese desiderio di rivincita politica e nel contempo di autentica vendetta storica, da parte di chi continua a riabilitare in maniera surrettizia l'illiberalità del Ventennio fascista. E che non crede, ieri come oggi, alla spirito di riconciliazione, se non per i vantaggi e per i privilegi che se ne possono trarre.
Parole quelle di De Gasperi, che due anni dopo, anche per merito di tutte le forze politiche e dell'Anpi, l'Associazione partigiani d'Italia, e nonostante il clima di velenosa contrapposizione tra Dc e partiti di sinistra, estromessi dal governo nel maggio del 1947, furono tradotte su proposta del Presidente del Consiglio nella Legge 27 maggio 1949, n. 260, che recava le "Disposizioni in materia di ricorrenze festive" ed istituiva la festa nazionale del 25 aprile.
Nello spirito degasperiano, vi si può leggere anche il sincero desiderio di stemperare le tensioni e, per alcuni versi, è lecito ipotizzare anche un riconoscimento allo spirito democratico e legalitario manifestato dal segretario del Pci Palmiro Togliatti, vittima di un grave attentato il 14 luglio del 1948, che dal letto d'ospedale, in un Paese sull'orlo della guerra civile, invitò i militanti comunisti, gli ex partigiani, gli operai che avevano occupato le fabbriche, a desistere da qualunque reazione violenta e illegale. I nemici erano altri. E si annidavano nei corpi separati dello Stato, come fu chiaro nei decenni successivi.
Limite di De Gasperi fu quello di credere nella forza della politica e di attribuire una valutazione non corrispondente alla realtà e alle capacità correttive della politica stessa, unito alla convinzione di poter temperare (e controllare) le contraddizioni e le controspinte antidemocratiche, in nome di un anticomunismo viscerale, diffuse in aree non marginali del suo partito, la Dc.
La libertà, tratto distintivo della Resistenza
Il 25 aprile, pur tra limiti e polemiche, è sopravvissuto di generazione in generazione come collante di unità e custode dei valori democratici e costituzionali, solido ponte su cui si sono incontrati coloro che nel passato erano schierati su barricate contrapposte. De Gaspari, l'anno dopo, in un discorso al Congresso della Federazione italiana volontari della libertà (FIVL) e a tutti i comandanti partigiani, pur indicando quale nemico della libertà l'Unione Sovietica di Stalin e di riflesso il Pci di Togliatti, (ma non parlò della dottrina, come volle sottolineare) in quella che era una visione di netta spaccatura del mondo, non escluse implicitamente nessun partigiano da quella volontà di riscatto politico e morale che aveva animato la Resistenza in montagna.
"La vostra parola comune è libertà", disse De Gasperi. Che proseguì: "Una parola magica che vuol dire molte cose, che sottintende molte cose; libertà prima nel senso di indipendenza del Paese contro qualsiasi dominazione ed aggressione; libertà poi in regime politico, avvento delle forze popolari al Governo; libertà nella giustizia sociale, cioè ridistribuzione della proprietà, del reddito, della ricchezza; libertà consapevole dei valori spirituali eterni e religiosi." E libertà come esperienza storica.
Esperienza non solo storica, viene da commentare, leggendo i successivi passaggi con cui De Gasperi chiuse il discorso. E qui si impone un supplemento di riflessione per le sottolineature politiche che si affacciano, pur a 75 anni di distanza, quantomai a noi vicine e che meritano di essere riproposte integralmente. Soprattutto per ridare alla nostra politica connotazioni sinceramente democratiche nella loro interezza e battere avventurismi che giocano sul fascino della seduzione della governabilità a tutti i costi, risultato di ingegnerie legislative non previste dalla Costituzione e leggi elettorali antitetiche ad un sano criterio di rappresentanza, comunque destinate a devitalizzare lo spirito di partecipazione popolare.
"Mai rinnegare il punto di partenza, il Parlamento"
Ecco i passaggi, uno dei quali anche autocritico, quello relativo all'avvento del Fascismo: "E non cadiamo nel vecchio errore. Dir male delle istituzioni è facilissimo perché sono istituzioni umane, composte e impastate da passioni umane e da debolezze umane; dir male del Parlamento è la cosa più facile del mondo. Dire male di un congresso, discutere, denigrando o diminuendo il valore positivo delle cose, è quasi una tendenza tradizionale da noi e non solo da noi. Evidentemente è una debolezza umana generale ma è un difetto che in certi momenti può costituire degenerazione della democrazia e dobbiamo combatterlo. Ma per i difetti e per l’eventuale degenerazione, non possiamo tornare dalla Camera all’anti-Camera. Non dobbiamo tornare alla libertà oppressa, al regime dittatoriale dove, al più, è lecito mugugnare. Non lasciamoci ingannare dalle pur legittime critiche. Senza dubbio speriamo che i nostri figli si trovino innanzi ad un sistema rappresentativo più ideale, più sicuro, più degno; sarà la via dei progresso. Ma perché questo sogno si avveri, non dobbiamo rinnegare il punto di partenza. Perché io insisto su questa parola Parlamento? Perché anche molti dei nostri amici, anche buoni patrioti, credono che sia una cosa secondaria, e forse nel 1921-22, anche molti di noi lo abbiamo creduto, nonostante che avessimo dinanzi la storia della esperienza politica.
Ma il risultato positivo della esperienza fascista deve essere questo: mai più tornare indietro nello sviluppo parlamentare; correggerlo, rinnovarlo, tutto quello che volete, ma non abbandonare il sistema, perché abbandonato il Parlamento, le altre libertà non sono più sostenibili. Questo lo ripeto qui in mezzo a uomini avvezzi a ricorrere alla difesa con la spada, che hanno una certa concezione militare della vita e delle grandi virtù, che fanno parte di sta concezione militare. E necessario però aggiungere a queste doti anche l’accettazione volontaria dello spirito democratico che vuoi dire veramente sottoporsi all’esperienza parlamentare perché fino ad ora si è dimostrato non esservi altra spada per migliorare le leggi della convivenza civile".
Note
[2]Discorso al Congresso dei comandanti partigiani pubblicato su «Il Popolo», 31 ottobre 1950, con il titolo Impegno di una nuova Resistenza sulla linea della difesa del paese.
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