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Pietro Terna

PUNTURE DI SPILLO. Valori contrastati della generazione Z

a cura di Pietro Terna

Ho avuto la fortuna di partecipare a incontri di studio a Santa Fe nel New Mexico, Stati Uniti, presso il Santa Fe Institute[1] per gli studi sulla complessità o presso il Redfish Group.[2] Alcune delle persone che ho conosciuto là, ora in gran parte in pensione, hanno la bella abitudine di incontri settimanali per discutere i temi più vari, ma sempre con riferimenti di sostanza; le discussioni iniziano e proseguono via mail e io ne beneficio. Recentemente hanno discusso online dell’articolo What Work Means, Che cosa significa il lavoro, appena uscito nell’Harvard Magazine.

Sintesi brutale dell’articolo: il lavoro è per fare soldi, ma è anche un impegno sociale, chi fa le assunzioni sembra non capirlo, anche se le big companies mettono al lavoro presso di loro il vestito della festa, per farlo apparire in quel modo agli studenti. Chi ha lanciato la discussione ha scritto: «Molti di noi, probabilmente la maggioranza, hanno trascorso molti anni nei campus universitari o nelle loro vicinanze. Abbiamo avuto a che fare con gli studenti per decenni. L'ultimo numero dell'Harvard Magazine contiene un interessante saggio di un laureando che descrive le prospettive sue e dei suoi compagni di classe sul loro futuro e sul mondo. Posso solo dire che sono felice di essere in pensione».

Proviamo a leggere (traduzione automatica con correzioni del tutto marginali):

Non molto tempo fa, stavo parlando con un rappresentante di una grande azienda privata che recluta ad Harvard. L'azienda cerca naturalmente di fare soldi. Come studente di economia, capisco e apprezzo il ruolo di questi incentivi.

Tuttavia, in qualità di studente senior ricco di aspettative, mi chiedo se questo obiettivo sia in linea con le mie priorità. Non sono contrario agli obiettivi di profitto - probabilmente lavorerò nel settore privato dopo la laurea - ma vorrei capire come si fa a trovare un valore personale in un'organizzazione che non è orientata a una missione [ndr nel contesto: rivolta a un obiettivo che valga la pena perseguire], quindi ho posto questa domanda al selezionatore.

Mentre io cercavo di capire come inserire il lavoro dell'azienda in un una prospettiva etica, il selezionatore ha pensato che stessi facendo una domanda molto più pragmatica sul morale e sul burnout [ndr: morale di chi lavora lì, con burnout che sta per stress eccessivo]. Ho provato a riformulare la domanda, ma non sono riuscita a far capire il mio punto di vista. Era come se stessimo parlando due lingue diverse.

Questo scollamento non si limita solo a me e a questo reclutatore. Sempre più spesso la mia generazione vede i propri datori di lavoro attraverso una lente morale che è difficile da comunicare alle generazioni più anziane.

In effetti, i sondaggi suggeriscono che i membri della Gen Z - quelli nati tra il 1996 e il 2010 - sono più propensi a cercare datori di lavoro che condividano i loro valori.

Molto bene, direte. Ma più avanti si legge anche che «A livello nazionale, la percentuale di matricole che cercano di "sviluppare una filosofia di vita significativa" come obiettivo dell'università è diminuita di quasi la metà dal 1965, mentre la percentuale di studenti che cercano di "essere benestanti dal punto di vista finanziario" dopo la scuola è raddoppiata».

E in Italia? Ho smesso di insegnare da circa cinque anni (sono andato… un po’ lungo rispetto al pensionamento), ma ho mantenuto collegamenti con molti giovani, per le tesi e anche per la ricerca del lavoro. Mi pare che la ricerca ossessiva del guadagno non sia la priorità di molti di loro, che invece posseggono una visione molto completa della vita. I reclutatori, con le loro tecniche spesso un po’ ridicole, riescono a capirlo? Altrettanto ridicoli sono gli abiti della festa che molte attività indossano per presentarsi con uno strato di verde e affermando che producono “valore” per gli stakeholders (cioè la popolazione che lavora nell’azienda, ne è cliente o fornitore, ne condivide lo spazio e così via, certo senza dimenticare gli azionisti o i proprietari in prima persona), senza mai accennare a fatturato e profitto. Ma poi… sotto il vestito poco o nulla, soprattutto come offerta qualificata di lavoro in Italia, dove i laureati sono pochi rispetto all’Europa, ma restano lo stesso senza un lavoro adeguato alla loro formazione.

Infine il lavoro non è solo quello top-class del futuro, soprattutto è quello di chi della top-class non sa proprio nulla. Con soddisfazione maggiore o minore, o senza nessunissima soddisfazione, il lavoro è sempre responsabilità verso sé, la famiglia, la cerchia dei colleghi, quella degli amici, la società, a tutti i livelli. Un elemento, questo, molto positivo, ma solo se si accompagna alla libertà. Da un classico moderno del pensiero liberale, “Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile” di Ralf Dahrendorf (p.19 della edizione 2005, nella Economica Laterza): «La disuguaglianza non è più compatibile con la libertà quando i privilegiati possono negare i diritti di partecipazione degli svantaggiati, ovvero quando gli svantaggiati restano nei fatti del tutto esclusi dalla partecipazione al processo sociale, economico e politico. A ciò esiste un solo rimedio, la dotazione elementare garantita a tutti. In essa rientrano i diritti fondamentali di tutti i cittadini, ma anche un livello di base delle condizioni di vita, forse un reddito minimo garantito, e comunque la prestazione di certi pubblici servizi accessibili a tutti». La visione liberale del reddito di cittadinanza!

Il Maestro di musica degli spilli ricorda che il lavoro come responsabilità (e come condanna) è un tema della letteratura oltre che dell’economia. Lo leggiamo in una poesia[3] di Cesare Pavese, Fumatori di carta. Un amico porta Pavese a sentire le prove della sua banda. Fuori piove. La luce va e viene. La musica è «chiasso sonoro». Si suona con rabbia. Gli ultimi versi svelano il senso, la musica grida una ribellione, «almeno potercene andare, far la libera fame», lontani dal «pezzetto di terra», dalla schiavitù dei doveri, nei confronti della famiglia, della società, del lavoro. Nuto, l’amico di Pavese, suona il clarinetto. Un clarinettista libero e potente è stato Pee Wee Russell. Veniva dal dixieland, era un gran bevitore, aveva un suono a tratti sgraziato ma pieno di umanità. E seppe rapportarsi alla modernità come dimostra il suo farsi interprete[4] della musica di un altro irregolare come Thelonious Monk.


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