Politica e giovani: "il sole non si è ancora spento per loro"
Aggiornamento: 23 lug 2024
di Guido Tallone
È spesso in piazza, in queste calde mattine di giugno. Si chiama Dino. Ha 92 anni. E della sua salute non parla mai. Volto scavato e sguardo acuto. Conosce quasi tutti. E ama confrontarsi con chi è disposto ad intrattenersi con lui. Per un motivo molto semplice: perché è ancora curioso come un bambino; vuole capire, sapere, approfondire e discutere sulle questioni complesse che gli stanno a cuore. Quando i nostri sguardi si incrociano è segno che c’è del tempo per un confronto. E senza troppi giri di parole mi pone, a proposito delle ultime elezioni (europee e amministrative), il problema dell’astensionismo chiedendomi se, secondo me, i “nostri” partiti sono consapevoli che è questa la vera emergenza della nostra democrazia.
Sto ancora cercando le parole per abbozzare una risposta che non entri nel banale, quando lui prosegue: “Gli unici che giustifico sono i giovani. Non li ascolta nessuno. Ne piazzano uno ogni tanto in qualche lista come una foglia di fico per coprire la vergogna della distanza del partito da chi sta crescendo. Tra i candidati al Parlamento europeo gli over 64 erano il doppio dei giovani. Per non parlare del fatto che sulla questione ambientale e sulla pace le proteste dei giovani non solo non vengano ascoltate, ma spesso e volentieri sono zittite dall’uso dei manganelli. Dopo il caso Caivano la presenza dei ragazzi in carceri minorili è aumentata del 20%: segno che la risposta repressiva ai loro bisogni è certa, mentre per “altri” investimenti educativi e di politiche giovanili non ci sono mai i fondi!”.
È un fiume in piena. Non l’ho mai visto così deciso, convinto e determinato. Non riesco ad infilarmi nei suoi ragionamenti e nella sua documentata esposizione. Nemmeno quando apre il capitolo delle “sciagure” e delle pesanti eredità che “noi anziani” abbiamo “consegnato” ai giovani. L’elenco non è dettagliato, ma abbastanza completo. Dino parte dalle due guerre mondiali del secolo scorso; cita i pesanti totalitarismi che hanno annullato le democrazie e reso inutile qualsiasi Parlamento; fa un cenno alle devastazioni ambientali (“che oggi devono pagare loro: i nostri figli e nipoti”) “per non parlare del contrasto tra Nord e Sud del mondo: così carico di ingiustizie e di diseguaglianze che toccherà alle prossime generazioni riparare i danni fatti da chi ieri era giovane!”.
Di solito mi ferma e mi pone domande. Mi chiede un parere su questo o quell’articolo di quotidiano. Oggi vuole parlare. Cerco di capire se ha nipoti, ma lui glissa la domanda. Non parla dei “suoi” giovani: quelli del suo clan familiare, ma dei giovani in quanto tali. Si riferisce ai poco più di tre milioni di elettori maggiorenni chiamati per la prima volta, in Italia, al voto nel 2024. “Quelli di loro che non sono andati a votare – prosegue – non solo li capisco, ma li giustifico anche. E speriamo che a forza di non votare qualcuno li veda, li noti, li ascolti e cominci un’era di politiche diverse: con maggior protagonismo dei giovani.”.
Provo a dirgli che in Italia gli schieramenti di sinistra (Alleanza Verdi e Sinistra, Partito Democratico e Movimento Cinque Selle) hanno intercettato più degli altri Paesi dell’Unione Europea il voto giovanile (il Pd ha conquistato il 18% dei voti tra gli under 30, seguito a stretto giro da M5S con il 17% e da AVS il 16%). Lui mi dà ragione, ma con fermezza ribadisce che tutto questo non basta. Per una ragione molto semplice: “perché il non-voto dei nostri giovani è una denuncia, una “parola” scomoda che non va frettolosamente liquidata come disimpegno, disinteresse della cosa pubblica o ripiegamento narcisistico su sé stessi”. La sua tesi è chiara: il “non-voto” di moltissimi giovani è una protesta e, allo stesso tempo, una originale forma di partecipazione per ricordare che non basta “parlare” dei giovani. Ciò che chi cresce chiede è lo spazio necessario per ottenere quel doveroso protagonismo senza il quale nessuno trova un posto in questa società.
Penso all’ultima intervista rilasciata a Massimo Ammaniti (venerdì scorso, 14 giugno, alla Repubblica delle idee) che risponde così a due precise domande poste dal giornalista:
L’Italia è un paese per giovani?
«No, è un paese per vecchi. Non si investe su di loro, il loro futuro è nebuloso, chi può va all’estero, chi resta si trova di fronte un mercato del lavoro con poche opportunità e poco redditizie. Anche la scuola è datata usando metodi ancora molto tradizionali».
E la politica parla ai ragazzi?
«Non li considera per nulla, se non per slogan e spot. La politica ne ha paura. Basta guardare quello che è successo con le occupazioni. Se da una parte i giovani manifestano per senso di appartenenza o vicinanza a una istanza, che può essere la causa palestinese o l’emergenza ambientale, al di là dei colori politici, i giovani si identificano quasi sempre con il mondo più fragile e più debole. Perché? Perché per certi versi li rispecchia creando così empatia e solidarietà. Ancora una volta, gli adulti sono incapaci di confrontarsi con loro. In questo caso sono i presidi e gli insegnanti a dover dialogare e a confrontarsi. Sono l’ascolto e la mediazione, senza perdere l’autorevolezza, la via migliore alla comprensione degli adolescenti».
Ancora una volta Dino ha colpito il bersaglio: ti ferma, ti ascolta, ti parla (questa volta molto più del solito) e poi …, ti obbliga a ripensare a quell’incontro. Proseguo il mio cammino e rivedo, nel suo sfogo, la scelta di non giudicare chi, con l’assenza dai seggi elettorali, denuncia il vuoto di attenzioni e di ascolto che il mondo degli adulti riserva ai nostri giovani. So che anche questo tema – giovani e astensionismo elettorale – è, come sempre, molto complesso e che ha fatto bene Luca Caci a sottoporlo all’attenzione dei lettori della Porta di Vetro.[1]
A lui e a chi dirige il sito chiedo, però, di confrontarsi anche con la schiettezza di altri over 90 e di fermare l’equazione “astensione elettorale dei giovani” uguale a “minacciose nubi sul nostro futuro”. Dino ci ha dimostrato, se mai ne avevamo bisogno, che esistono ancora anziani che sanno ascoltare in profondità la nostra società e che sono disposti a grattare la superficie: là dove il mondo reale è più complesso e dunque meno esposto ai giudizi tra il superficiale e lo slogan.
E se molti ragazzi e giovani “sono disposti al sacrificio e a mettersi in coda, di notte, in tenda, al freddo sotto la pioggia e aspettando per ore…” per un concerto di Ultimo, è perché nell’arte, nella musica, nei concerti, nell’aggregazione e nello stare assieme incontrano quelle “parole” fatte di ascolto, di dubbi, di silenzi e di presenza mai invadente che la politica di molti partiti (non amo generalizzare) non sa più pronunciare.
Non credo esista un collegamento “diretto” tra il non-voto di moltissimi giovani e la partecipazione di migliaia di loro ad un concerto di Ultimo. Sono invece convinto che i giovani che decidono di “partecipare” ad un concerto (assumendo in prima persona i “costi” economici e fisici di questa presenza) sono la parte sana della nostra gioventù: quelli che sanno che il volto della libertà e della democrazia è dato dalla “partecipazione”, come cantava Gaber. Ed è per questo che alternano assenza e presenza: per obbligare il mondo degli adulti e della politica a scelte e a parole credibili.
Come direbbe Ultimo nella sua canzone Niente:
È che da tempo non so dove andare
provo ad urlare ma non ho più voce
tu dici “dai si può ricominciare”
ma io non ho da offrirti più parole
si è vero tu mi incanti anche se non mi parli
ma il sole è spento e non lo vedo più da queste parti.
Parole rivolte non solo ad un legame affettivo che si sta spegnendo. Ma anche ad un mondo adulto – politica compresa – che prima presenta a chi cresce un “sole spento” - che non è quello cantato da Caterina Caselli nel 1967, anno di grandi speranze e passioni, nonostante tutto - e, subito dopo, gli domanda perché non va a votare.
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