Perché Sarajevo? Memoria di una resilienza che ha molto da insegnare
Domenica 19 marzo, dalle 17.45, il Mastio della Cittadella ospiterà a chiusura della mostra fotografica "La Lunga notte di Sarajevo", il lavoro teatrale "Sarajevo. Frammenti di uno spettacolo", interpretato dalle attrici Chiara Bosco, Serena Bavo, Silvia Mercuriati, Stefania Rosso. La pièce trae spunto dal testo "Fuga da Sarajevo" rappresentato a Torino allo Spazio Kairos il 17 e il 19 febbraio scorsi, scritto da Monica Luccisano, regista dello spettacolo.[1]
Sarajevo è il topos delle immagini in bianco e nero di Paolo Siccardi, fotografo torinese free-lance, che tra il 1992 e il 1996, si è recato ripetutamente a fissare l'orrore dell'assedio più lungo della storia contemporanea, poco meno di quattro anni, con i cecchini e le artiglierie delle milizie serbe che martoriavano la città in una assurda guerra che mescolavano l'odio etnico e religioso.
A oltre trent'anni di distanza da quelle atrocità, Sarajevo sta compiendo la parabola della sua rinascita. Le foto della nostra copertina sono state scattate ieri dall'amico e collaboratore de La Porta di Vetro, Libero Ciuffreda, in Bosnia per una missione umanitaria. Ma perché Sarajevo nella mente e nel desiderio di rappresentarla è la domanda che ha posto La Porta di Vetro alla regista Monica Luccisano, giovanissima nell'ultimo decennio della Novecento.
Monica Luccisano: "Non è la prima volta che affrontando il mio lavoro drammaturgico mi si chiede direttamente perché Sarajevo? Preludio ad un'altra domanda indiretta, che fa capolino negli occhi dei miei interlocutori: tu, che cosa c'entri con Sarajevo? Ed è in quel momento, in quel preciso istante che la mia mente comincia a vagabondare senza una precisa meta, raccogliendo però le immagini dei miei lavori, del mio impegno artistico e sociale: perché la guerra? perché l’Alzheimer? perché le madri di Plaza de Mayo che reclamano la verità per le loro figlie e figli scomparsi sotto il tallone della dittatura dei generali argentini, e raccogliendo in tema reale la domanda sottintesa, cioè se la mia vita avesse qualcosa a che fare con quei drammi, con quelle storie, con quei dolori. No. Non lo aveva, almeno non direttamente.
Eppure sì. Lo aveva, e lo ha, nella misura in cui quelle storie appartengono alla "vicenda umana”, a tutti noi o a tutti coloro che hanno la forza e il coraggio di farsi investire, coinvolgere proprio dalle vicende umane. Cerco un nodo che allaccia quelle fotografie di tempi, luoghi e vite lontane dalla mia, e in ultima analisi cerco di girare al pubblico la stessa domanda. Che cosa significa per noi Sarajevo? Che cosa proviamo, adesso? Nel caso di Sarajevo il nodo (se non la risposta) è la parola “assedio” che, nel caso della mostra fotografica, l'autore Paolo Siccardi, la curatrice Tiziana Bonomo, Marco Travaglini con i suoi testi e Michele Ruggiero con l'organizzazione e la supervisione hanno saputo rappresentare nella sua interezza.
Ma testi e immagini parlano ai nostri cuori in silenzio, per pudore e per il timore di disturbare i vissuti di chi c'era a Sarajevo. Esprimono che cosa si prova quando ci si sente sotto assedio e il quotidiano scorre deprivati dell'energia elettrica, del gas, dell'acqua, dei principali generi alimentati, pane, latte, quando il senso della vita si affievolisce come la fiammella di una candela. Al contrario, le parole non temono il pudore e il disturbo. Anzi. Più si inanellano nella tragicità degli eventi, e più costringono tutti a noi metterci dinanzi allo specchio, a dire e a dirci che è accaduto e potrà ancora accadere.
Non è metafora. E' realtà. A Sarajevo sono state sepolte migliaia di vittime innocenti e altrettante sono rimaste ferite, mutilate dentro e fuori in maniera indelebile: un sacrificio che merita di essere portato nel mondo. Attraverso il teatro, perché no? E Sarajevo, così lontana e così diversa dalla mia quotidianità, mi viene incontro quasi a parlare di me, e chi ci è stato sa che è una città dal fascino potentissimo. Così, in risposta alla parola “assedio”, mi mostra un altro termine dal significato ancora più totalizzante: resilienza. Sarajevo ha respirato una resilienza che può parlare (vorrei dire insegnare?) a chiunque, e che può dire tanto della “vicenda umana".
Note
[1] https://www.laportadivetro.com/post/sarajevo-frammenti-di-uno-spettacolo-chiude-la-mostra-al-mastio
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