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Perché quelle parole forti del Procuratore Generale di Torino?

La Porta di Vetro

Aggiornamento: 2 giorni fa


E’ davvero difficile restare indifferenti di fronte agli argomenti usati dal Procuratore Generale Lucia Musti nel suo discorso all’apertura dell’Anno Giudiziario, sabato scorso, con cui ha definito Torino capitale dell'eversione. Un discorso forte il suo, e per alcuni versi inatteso, tanto da far passare in secondo piano la protesta dei magistrati, anche a Torino come in altre parti del Paese, contro i provvedimenti sulla giustizia annunciati dal governo, e le successive reazioni del Guardasigilli Carlo Nordio, che si è sentito addirittura "elettrizzato" dalle critiche dei magistrati. Chissà che non riesca con così tanta energia a risolvere anche i problemi energetici del Paese.

Ma specifichiamo le dichiarazioni del Procuratore Generale Lucia Musti e ritorniamo alla sua descrizione di Torino come la nuova capitale dell’eversione. O quanto meno, come poi si legge nel corpo degli articoli, “di piazza”, cioè una roccaforte dell'antagonismo. Un ragionamento, il suo, che si riferisce ai recenti episodi di violenza durante alcune manifestazioni di protesta (Gaza, pro-Palestina, morte del giovane Ramy Elgami), alle pratiche di alcune frange del movimento No TAV, e alla galassia del mondo anarchico e antagonista.

Definire, però, la violenza di piazza come  “eversione” rimane un collegamento che allarma e mette i brividi, soprattutto se rimane sulla linea di galleggiamento della denuncia eclatante, perché tale diventa in un contesto come l'inaugurazione dell'Anno Giudiziario, già sotto un potente fascio di luce per altri motivi. Vero è che il termine eversione definisce genericamente atti che tendono a sconvolgere o rovesciare lo status quo, ma se questo si dovesse limitare a ciò che accade in una piazza nel venire a contatto delle Forze dell’Ordine, si perderebbe il senso vero che ad esso viene attribuito nel nostro ordinamento giuridico, soprattutto e in conseguenza di ciò che il nostro Paese ha vissuto dagli anni Sessanta fino agli anni Ottanta (dagli attentati in Alto Adige, alla Strategia della Tensione, alle bombe in piazza, agli omicidi di decine di servitori dello Stato, politici, giornalisti, sindacalisti), con alcuni episodi tragici che si sono registrati anche nei decenni successivi. Tanto è vero che un atto viene definito eversivo se crea un reale pericolo per l’ordinamento democratico. Non per caso, pur evitando gli incunaboli giuridici, negli articoli 270, 270 bis e 280 del Codice Penale, la finalità di eversione dell’ordine democratico è associata a quella di terrorismo.

Ora, non c'è alcun dubbio che la violenza di piazza, in particolare quella rivolta contro le istituzioni, sia da condannare e i suoi protagonisti puniti con la massima severità, isolata e mai legittimata. Ma viene da pensare, affinché essa assuma un vero e proprio contenuto eversivo, che servano anche altri elementi, ancora più gravi e preoccupanti, sia per forza e organizzazione, sia per capacità di pianificazione, pericolosità profonda, contesto sociale e politico in cui si colloca. Elementi che, per fortuna, né nel discorso del Procuratore Generale, né nella realtà quotidiana hanno fatto capolino, ma che ci sono noti per memoria storica. Purtroppo.

Quindi attenzione al rischio di equivoco, perché da qui ad agitare lo spettro del ritorno degli Anni di piombo il passo è assai breve. Talmente breve da essere richiamato, quello spettro - “se non si interviene in maniera determinata” - proprio nella stessa occasione, l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario, dal rappresentante del Consiglio Superiore della Magistratura Enrico Aimi.

E siccome durante lo stesso discorso il Procuratore Generale Musti ha sottolineato il lavoro importante fatto dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine proprio per contrastare la galassia estremista, qual è allora lo scopo di tanta durezza? Forse, per suscitare una maggiore attenzione da parte delle istituzioni locali? Quelle, cioè, che per qualcuno starebbero sottovalutando alcuni fenomeni, in particolare in relazione al percorso per considerare “bene comune” lo stabile storicamente occupato dal centro sociale Askatasuna? Se così fosse, le occasioni per dirlo alla città e chi la amministra, e magari per sottolineare le contraddizioni che pure esistono, sicuramente non sono mancate, e l’uso di una così solenne appare almeno sproporzionato.

Se invece tutto nascesse dal timore che il rapporto tra le istituzioni che devono concorrere a costruire sicurezza non funzioni come dovrebbe, quel discorso non rischia forse di creare addirittura nuove tensioni, come dimostrano le polemiche che immediatamente si sono aperte almeno nel mondo politico locale?

E ancora. Gli argomenti usati dal Procuratore Generale poggiano forse su elementi di cui non siamo a conoscenza (e questo sì, sarebbe davvero preoccupante) o faranno pensare a qualcuno che siano parte di una sorta di teorema - nessuna analogia al 7 aprile e al teorema Calogero - i cui punti meno chiari finirebbero inevitabilmente per diventare il luogo di scorribande alla ricerca del consenso?

Oppure si tratta di espedienti retorici “forti”, da tenere però al riparo da fantasmi che non devono tornare?

Domande a cui noi non siamo in grado di rispondere, e su cui immaginiamo che chi amministra la città chiederà un chiarimento, magari fin da oggi, 27 gennaio, in Consiglio Comunale, in Sala Rossa. Perché quei titoli non fanno bene alle nostre coscienze, evocano ricordi  drammatici che vogliamo continuare a considerare tali, e non sono nemmeno un racconto veritiero della nostra città, che non è una città violenta, né propensa alla violenza. Speriamo che tutto questo  serva almeno ad ognuno per ragionare su sé stesso e sui propri atti. Sulle parole come sulle scelte, ma con l’obiettivo sincero di lavorare uniti senza diventare parte di polemiche, almeno tra istituzioni, di cui la sicurezza, autentico bene comune, non poi ha così bisogno.

 

 

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