"Per un modo diverso di vivere e intendere il giornalismo"
- Emmanuela Banfo
- 5 mar
- Tempo di lettura: 7 min
di Emmanuela Banfo

Il modello di racconto dei migranti che i media propongono, quasi totalmente all’ unanimità corrisponde alla realtà? Il tema, al centro di un incontro al Circolo della Stampa di Torino, organizzato dal Centro Studi Pestelli, ha offerto spunti di riflessione che non riguardano soltanto il modo di fare giornalismo, ma il modo di fare memoria, di fare storia. La pastora e già moderatora della Tavola Valdese, Maria Bonafede, la coordinatrice di Mediterranean Hope-Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Marta Bernardini e Daniela Sironi della Comunità di Sant’Egidio, pur nei diversi accenti dei loro interventi, si sono trovate d’accordo su un punto: occorre cambiare prospettiva. Occorre cambiare il nostro sguardo su una realtà che non è emergenziale, non è un accidente contingente di questa fase storica, ma è destinata, anzi si spera sia destinata, ad essere la normalità.
Spunti riflessione
Normalità di gente, di popoli, di persone che attraversano le frontiere per mille motivi, che vanno dalla guerra alle condizioni ambientali, ma anche, molto più semplicemente e molto più diffusamente, perché mosse dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita o di provare nuove esperienze, conoscere altre culture. "Aiutarli a fare la vita che vogliono fare", ha detto Maria Bonafede. Nei racconti sull’immigrazione – ha fatto notare Bernardini – non c’è mai posto per la parola ‘desiderio’, ma per le parole ‘emergenza’, ‘collasso’, ‘invasione’. "Diamo loro la libertà di esprimere i loro talenti" ha aggiunto Daniela Sironi. Tutto questo va sotto il grande titolo "normalità" o, meglio, rappresentare una realtà che fa parte di una storia in movimento, in cammino. E che è questa la normale eccezionalità di un’umanità che non è statica, monolitica.
Occorre, dunque, cambiare i paradigmi del giornalismo? E, quindi, tra le altre cattive abitudini, di cui liberarsi bisogna superare il pietismo narrativo, la vittimizzazione. L’analisi diffusa dalla seconda ricerca di ORA, l’Osservatorio Regionale Antidiscriminazioni, sull’informazione locale, si focalizza proprio sul pietismo e il ragionamento, riferito alle persone con disabilità, è estendibile ad altri soggetti che o si rappresentano fragili, vulnerabili, vittime oppure non si rappresentano. Ad esempio, l’ immagine prevalente della donna immigrata è: fotografata con il velo, avvolta da abiti-sacco che ne nascondono le forme, circondata da uno o più bambini. Rimanda alla donna casalinga di bassa scolarità in qualche modo somigliante alle native italiane anni Cinquanta del secolo scorso.
Al bando le rappresentazioni stereotipate
Che cosa possiamo concludere se non che la forza dello stereotipo è capace di camuffamenti e di convenzionarsi anche là dove la cornice culturale che lo contiene teoricamente ne è aliena. Eclatante è il caso della natalità. Perché i nostri Paesi occidentali dovrebbero contrastare la denatalità sulle spalle delle donne immigrate? Per anni e anni ci siamo battuti per affermare il diritto a una maternità libera e responsabile, non più vincolo biologico costrittivo dell’essere femminile. Perché negare questo diritto alle donne immigrate?

Un altro esempio: dire (prassi in uso da decenni, purtroppo) che ci servono gli immigrati perché svolgono i lavori pesanti, faticosi, ingrati è profondamente discriminatorio anche se fotografa una realtà. Ma il giornalismo non può limitarsi a scattare una fotografia.
Che cosa soggiace spesso a queste rappresentazioni? Vale la pena soffermarsi un attimo sulla relazione tra l’etica relativa e la violenza di genere. A monte un quesito di fondo: crediamo in un’etica universale che riconosce diritti uguali per tutte le persone, di qualsiasi etnia, orientamento sessuale, età anagrafica, abitanti in ogni luogo del globo Terra oppure in un’etica relativa che nel tener conto di diversità culturali e tradizioni finisce col ‘tollerare’ se non giustificare l’alienazione di quei diritti che riteniamo inviolabili? E’ su questo humus che s’innesta la differenziazione etnica della violenza contro le donne.
Modifichiamo i paradigmi informativi
Nell’informazione in larga misura la violenza contro la donna immigrata gode ancora di uno status diverso da quello di qualsiasi altra donna. E’ considerata parte di quelle culture la violenza sulle donne e pertanto se una moglie , ad esempio, marocchina subisce maltrattamenti, violenze, è ritenuto meno grave, e quindi fa meno notizia, rispetto ad analoga situazione che ha come protagonista una donna italiana, magari avvocata o comunque di medio-alto livello sociale. Il paradosso è che lo stesso immigrato violento quando picchia la moglie è in qualche modo giustificato a causa dei retaggi culturali, quando aggredisce fuori dalle mura di casa è additato come un mostro. E’ questa una delle dissociazioni mentali della nostra cultura e del nostro giornalismo che ne è specchio.
Parlare di cambiamento dei paradigmi del giornalismo significa che un giornalismo rispettoso della dignità delle persone, non discriminatorio e non portatore di una cultura della discriminazione, deve avere il coraggio di compiere una vera e propria rivoluzione delle sue logiche interne. Perché non è sufficiente, anche se necessario, l’uso di parole corrette. Non è sufficiente, anche se necessario, ricorrere e diffondere un linguaggio del rispetto e non dell’odio e della contrapposizione. L’esempio del discorso sulla natalità è emblematico.

Il rispetto della libertà di espressione
L’attenzione deve essere rivolta al pensiero che soggiace alla rappresentazione e che veicola messaggi e valori, che può essere portatrice di un’idea vecchia o di un’idea nuova di società, la prima che confina, gerarchizza, emargina, classifica e la seconda che include, mette in rete, crea relazioni, parifica. Possono passare messaggi discriminatori all’interno di cornici formalmente corrette.
Ragionare sul messaggio subliminale oltre il lessico, contiene un rischio, ovvero che nel prendere in esame non tanto parole ‘sbagliate’, ma narrazioni ‘sbagliate’, si incorri nel reato di opinione, come tacciare di fake news una notizia soltanto perché non corrisponde al mio modo di vedere. Eppure occorre mettere al centro del dibattito e della riflessione proprio questo aspetto. Rispettando sempre la libertà di espressione costituzionalmente asserita.
Una strada è quella di ritagliare uno spazio nuovo all’informazione giornalistica, distinguendola da altre forme di informazione. Negli ultimi tempi ci siamo troppo adattati alla commistione, all’ibridazione, alla fluidità che se da un lato ci ha arricchito dall’altro ci ha impoverito facendo perdere al giornalismo la sua specificità. Le cosiddette storytelling sono davvero pertinenti? La storia raccontata dal/dalla giornalista è diversa, perché diverso è lo scopo, da quella del/della scrittore/scrittrice di romanzi. Questa differenza non è stata messa a fuoco.
Spiazziamo i luoghi comuni
Perché lo sforzo che dovremmo sentire come categoria è quello, appunto, di ri-ragionare sui paradigmi che finora hanno retto il giornalismo. Uno di questi ruota attorno al concetto di ‘interesse pubblico’. Ma che cos’è di interesse pubblico. Chi lo stabilisce e come? Il numero di copie vendute dai giornali e quindi il gradimento dei lettori, delle lettrici? L’audience delle trasmissioni televisive, nella maggior parte dei casi impostate come incontri di boxe? Anche i contenuti pornografici sono di interesse pubblico, ma il/la giornalista non se ne fa carico. E tuttavia c’è un motivo recondito che giustifica la presenza di questo concetto nei nostri testi deontologici e in tutta la letteratura giuridica che attiene all’esercizio della professione giornalistica: è il concetto del coinvolgimento emotivo, della curiosità che l’informazione giornalistica è tenuta a suscitare. Sin dalle origini al giornalismo si è attribuito questo compito: la notizia deve emozionare, colpire al cuore, interessare nel senso di incuriosire.
Nel nostro stesso Codice si parla di ‘originalità’ di un fatto, di un evento. Potremmo sdoganare il giornalismo, l’informazione giornalistica da questa attribuzione, non ultimo perché a fare informazione non giornalistica ci sono altri soggetti. Non soltanto le trasmissioni di intrattenimento, ma i registi con i loro lavori cinematografici devono emozionare, appassionare. I poeti, le poetesse, ma anche i molteplici prodotti d’informazione, anche di alta gamma, professionalità, in campo scientifico, ambientale. Essendo vasto e vario il campo dell’informazione, quella giornalistica può permettersi di distinguersi, di svincolarsi dall’ aspettativa emozionale-spettacolare. Smentendo, tra l’ altro, un altro luogo comune: che ragionare sulle cose, stimolare il pensiero, non sia emozionante.
L'utilità sociale e culturale
In un tempo in cui era quasi soltanto il giornalismo, e il foto-giornalismo, a raccontare il mondo, assieme forse alla letteratura, il portato emotivo-passionale era un’attribuzione significativa. Il lettore non aveva altro modo di vedere l’invasione dei carrarmati sovietici in Ungheria se non attraverso la penna di Montanelli. E altrettanto dicasi per tanti reportage come quelli della Fallaci o tanti e tanti maestri e maestre del giornalismo. Ma oggi al giornalismo si chiede qualcosa di più e soprattutto di diverso. Che il giornalismo mi faccia vedere ininterrottamente che i palazzi crollano sotto i bombardamenti, è una vera e propria banalità.

Al concetto di interesse sarebbe bene sempre più sostituire, forse, quello di utilità sociale e culturale: di quale utilità è sapere che..., come arricchisce la mia cultura il sapere che..., come mi aiuta a essere un migliore cittadino, una migliore cittadina, essere informata che…. Soprattutto che cosa mi è utile sapere per capire meglio. Il concetto di interesse è troppo legato a quello di curiosità fine a se stessa, quando non dannosa. Il concetto di utilità sociale rimanda a una dimensione collettiva, corale che è quella in cui il giornalismo opera. Forse neppure la parola utilità è adatta, forse dobbiamo sforzarci di trovarne, o inventarne, un’altra. L’importante è aver chiaro l’obiettivo.
La notizia non può essere solo emozione
Noi non produciamo informazione e basta, ma informazione giornalistica che non deve essere guidata dal principio dell’originalità o della curiosità, del portato emozionale, ma dal principio della verità. Una verità da scoprire. Verità come ricerca, ricercare, ragionare, esplorare, non accontentarsi della prima risposta, di quello che appare. Dobbiamo sempre più essere una professione dietro le quinte, favorire una cultura della ricerca, un pensiero critico dell’esistente dove ogni fatto che si offre ad essere oggetto di cronaca, è spaccato di un’umanità, di un ambiente che il giornalismo porta a conoscenza.
Il giornalismo deve aiutare a pensare sugli eventi, non a emozionare e basta. Il giornalismo deve aiutare a interrogarsi, ad andare oltre a ciò che si vede, oltre al fatto c’è la complessità della storia, di ogni storia, da quella personale, individuale a quella del mondo. Solo così il giornalismo potrà difendersi e affermarsi come pezzo di un sapere che parla al futuro. Solo così il giornalismo potrà essere autore di rappresentazioni non stereotipate, non dogmatiche, non ingessate, ma che danno spazio a realtà, compresa quella delle migrazioni, che sono ben più ricche di quello che raccontiamo.
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