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Emanuele Davide Ruffino

Pensioni, troppe riforme sul tappeto per crederne a una

di Emanuele Davide Ruffino


Con la situazione finanziaria che si è andata a creare chi farà la riforma delle pensioni rischia di perdere parecchi consensi perché per decenni si sono alimentate speranze (per non parlare di illusioni) dettate da valutazioni solidaristiche, ma sempre meno sostenibili finanziariamente ed economicamente.

Oggi bisogna decidere se fare una riforma o rivendicare soluzioni rispondenti ad effettive esigenze, ma non più sopportabili dall’attuale livello di ricchezza delle nostre Nazioni occidentali.


Le posizioni di partenza

Come insegnò Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Gattopardo "voler cambiare tutto, per cambiare niente" non porta a nessuna soluzione. Sappiamo che gli uffici economici dell’Unione Europea, diretti dal commissario Paolo Gentiloni, non potrebbero accettare riforme che possano mettere in crisi gli equilibri finanziari (la stessa ipotesi di uscire dall’Europa, sulla scia della Gran Bretagna, non sembra garantire la possibilità di rincorrere manovre scellerate, come conferma la crisi della Truss). Ed allora perché varie forze polito-sociali-sindacali si ostinano a perseguire posizioni rigide, fatte più per compiacere ai propri simpatizzanti che per prospettare soluzioni realizzabili?


Sicuramente c’è un partito silente che vuole bloccare ogni ipotesi di riforma, senza esplicitarlo, ma creandone le condizioni. La stessa confusione delle proposte è un preambolo per l’immobilismo e, quindi, per il mantenimento della Fornero, che a parole quasi nessuno dice di volere (ad eccezione il gruppo “Azione”).

Le posizioni del sindacato, dopo che si è paventato una possibile “Opzione Uomo”, sono tutte per una riforma, ma con sfumature diverse. Riassumiamo.

1) Maurizio Landini (CGIL) dice che è "impercorribile" l'ipotesi di un taglio del 30% dell'assegno per poter accedere al pensionamento anticipato a 58-59 anni.


2) Domenico Proietti (UIL) sostiene la necessità di "convincere l’esecutivo che una flessibilità in uscita permetterebbe anche quel turnover generazionale tanto importante per i nuovi ingressi nel mercato del lavoro. I lavoratori più anziani dopo 41 anni di lavoro o con 62 anni d’età meritano di poter avere un’alternativa, é giusto che sia concessa loro la possibilità di accedere alla quiescenza con qualche anno di anticipo rispetto alla rigida Riforma Fornero".

3) Luigi Sbarra (CISL) afferma che "sulla previdenza, le penalizzazioni ci sono già state. Sul futuro della previdenza e delle pensioni è assolutamente auspicabile l'apertura di un confronto tra governo e sindacati appena possibile, anche per scongiurare la girandola di proposte che abbiamo ricominciato a leggere sui media".


Di parere diametralmente opposto è il parere di Pasquale Tridico (presidente INPS) che ha dichiarato: "Va nella giusta direzione, anche se l'equivalente in vigore per le donne, Opzione Donna, è stata scelta solo dal 25% della platea. Credo che tutte queste riforme siano orientate a un principio giusto, ovvero quello di garantire una certa flessibilità in uscita rimanendo ancorati tuttavia al modello contributivo. Su questo eravamo orientati anche durante il governo Draghi. Quindi se si va in questa direzione poi ovviamente la politica deciderà, ma si sembra che si è abbastanza in linea rispetto a quello che si stava facendo".


Non si capisce però se l’agenda Draghi "autentica" è quella del presidente Tridico o quella del "terzopolista" Carlo Calenda quando afferma: "La nostra proposta sulle pensioni si esaurisce nella richiesta del ritorno della legge Fornero". Ancor più confusa è la posizione dei partiti che nel periodo elettorale si sono sperticati in promesse varie: pensione minima a 1000 euro, quota 41 con soglie di età (ipotesi percorribile, secondo fonti vicine al futuro governo se invece fosse accompagnata da un limite di età ed un ricalcolo più sostenibile), mentre il Centro sinistra proponeva un’uscita dal lavoro a 63 anni e all’interno del regime contributivo. Tutti i partiti aggiungono poi agevolazioni a specifiche coorti in funzione dei loro bacini elettorali.


Come uscirne (se lo si vuole davvero)

Alla notizia della possibile “opzione Uomo”, l’aspetto positivo è che si comincia a ragionare in termini concreti: la preoccupazione è che per non perdere appeal (già molto basso) nessuno voglia prendere posizioni scomode, lasciando al futuro governo la decisione di evitare l’iniquità di uno scalone di cinque anni, per attaccarlo definendolo penalizzante qualsiasi sia la soluzione.


Nel dibattito manca una discussione preliminare su come impostare il problema che, per essere sostenibile non può non essere impostato sul modello contributivo: l’ipotesi di gravare sulle finanze dello Stato diventa una scelta squisitamente politica (quota 41 costerebbe il primo anno 4 miliardi... poca cosa se confrontata con i 75 spesi per mantenere in vita l’Alitalia, o ai 20 spesi per il reddito di cittadinanza). Il problema è che oggi, finanziariamente, non si può scaricare "impunemente" ulteriori spese sul bilancio dello Stato e, economicamente, bisogna tornare a ragionare sulla "produttività" del sistema Italia (la più bassa in Europa, insieme alla Grecia) e per migliorarla non sembra l’ideale obbligare gli ultrasessantenni a rimanere al lavoro (oltre al problema etico di permettere ai cittadini lavoratori di gestire in libertà i contributi versati e non essere sottoposti ad un dirigismo statale di dubbia efficacia).


Cercare una mediazione tra tutte queste ipotesi, ben sapendo che pochi vogliono mediare, sarebbe quella di ridefinire il sistema pensionistico, in modo sostenibile, e di approvarlo già nella legge di Bilancio, sfruttando la luna di miele dei primi 100 giorni di Governo. L’alternativa rischia di essere quella di impantanarsi in infiniti dibattiti e prese di posizioni che renderebbero ancora più incerta la situazione del sistema Italia. Al costituendo governo, l’ardua decisione.







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