Pensioni: la riforma migliore rimane quella dei continui rinvii
di Emanuele Davide Ruffino e Cristina Naro
Non avendo il coraggio di decidere e neanche di confrontarsi sui modelli elaborati all’estero (la Svezia propone un nuovo modello di flessibilità su cui nessuno in Italia esprime una posizione, pro o contro), probabilmente il mondo politico e parti sociali, preferiscono creare le condizioni per rendere sostenibile il sistema senza dirlo esplicitamente, con le politiche dei rinvii, e dopo le elezioni ci sarà la scusante della mancanza di tempo per una riforma nel 2024.
Tutto bene non fosse che non risulta trasparente chi dovrà pagare questi ritardi.
Dai dati disponibili relativi al 2023 (fonte INPS), le nuove pensioni sono state 764.907 registrando un significativo calo dell'11,07% rispetto alle 865.948 del 2022. Con questo trend il problema della riforma delle pensioni è, seppur in sordina, già compilata e senza scatenare le contestazioni violente che hanno caratterizzato la società francese per mesi.
Come districarsi tra un’infinità di numeri
Le pensioni in essere nel 2023 hanno comportato una spesa intorno ai 300 miliardi di Euro, il 15.6 del PIL. Ad inizio del 2024 le pensioni erogate sono 17.775.766, per il 76,7% di natura previdenziale, ovvero erogate a seguito di versamento di contributi, le restanti, 4.142.774 pari al 23.3% con un esborso di 25.9 miliardi sono di natura assistenziale, erogate a sostegno di situazioni di invalidità o di disagio economico (prestazioni agli invalidi civili comprese le indennità di accompagnamento e pensioni e assegni sociali). Se è indiscutibile la necessità di queste spesa per sostenere il welfare sociale, occorre precisare su chi ricade la spesa: se sulla fiscalità generale, in base alla capacità contributiva o su chi è chiamato a versare i contributi. Per come è strutturato il sistema, quest’onere ricade maggiormente sul ceto medio: i redditi tra 35 e 55mila euro, il 13% dei contribuenti già sopportano il 60% delle imposte, proporzione che si appesantisce sensibilmente se si considerano i contributi previdenziali versati. La previdenza rischia di essere utilizzata come binario parallelo della pressione fiscale per sostenere alcune spese, ma che non risponde a principi di equidistribuzione.
Se si considera poi l’incidenza (intesa quale percentuali di nuovi nuovi casi compaiono in un determinato lasso di tempo) delle nuove pensioni nel 2023 di natura assistenziale si rileva come su 1.364.686 di nuove pensioni, il 48,6% era di natura assistenziale (nel 2003 è di 11 punti, era al 37,6%. Sempre più un bacino elettorale di indubbio interesse e ciò rende difficile una separazione tra previdenze ed assistenza, con il risultato che il costo grava su chi è tenuto a pagare i contributi previdenziali.
Confusione pensionistica
Se si vuole mantenere un segreto o si può contare su soggetti integerrimi (e l’Italia dei dossieraggi off control non dà certo garanzia) oppure si gettano nella mischia un’infinità di informazioni, per cui diventa difficile capire qual è la reale situazione. I decision maker della gestione pensionistica hanno probabilmente scelto la seconda strada per portare avanti riforme cercando di evitare violente contestazioni e per far digerire la cruda realtà (o quella che viene presentata come cruda realtà).
Ed in effetti, il primo problema del rebus delle pensioni non è tanto lo stabilire quali sono i numeri necessari per prevedere cosa accadrà fra trent’anni (risultato che nessuna intelligenza, umana o artificiale, può raggiungere) quanto quello di definire una politica sostenibile in un quadro affidabile di asset portanti una società (o come si sarebbe detto una volta “tirare a campà”).
I numeri però, se si esclude l’aspetto assistenziale, non sembrano rilevare significativi scossoni negli ultimi anni. I dati risultanti dal monitoraggio Inps sui flussi di pensionamento accerta che, nel 2023, le pensioni di vecchiaia sono state 296.153 in calo del 2,38% mentre quelle anticipate nell'anno del passaggio da Quota 102 a 103 sono state 218.584 con un calo del 16,09%. Ancor più significativo il calo riguardante le pensioni ai superstiti (203.708 con un -17,98%) e persino le invalidità sono diminuite del 13,55% a 46.462 unità. Mentre l'importo medio mensile, sempre nel 2023, nel complesso è passato da € 1.135 a € 1.140 euro (0,44% decisamente meno del tasso inflattivo).
Nel calcolo deve essere considerato anche il risparmio effettuato negli anni del covid (nel solo 2020 sono stati risparmiati 1,1 miliardi di euro di assegni previdenziali nel 2020 a causa dell'innalzamento della mortalità per effetto della pandemia). Neanche i dati di mortalità segnalano significativi scostamenti: 740.000 nel 2023, 701.000 nel 2021; 713.000 nel 2022; 654 nel 2023 permettendo alla popolazione italiana (grazie all’afflusso di 343.678 immigrati regolari, cui dovranno sommarsi quelli in via di regolarizzazione) di rimanere stabile tra i 59 e i 60 milioni. E poi non si può dimenticare che la percentuale di occupazione femminile e la relativa remunerazione media è più bassa rispetto alla media europea: basterebbe un riallineamento su questo fronte per riequilibrare gli andamenti demografici.
Alla ricerca di un sistema sostenibile
In questo scenario non paiono giustificati gli allarmismi sollevati da più parti e che incomprensibilmente tacevano quando la stessa situazione era tollerate e aggravata dai cosiddetti Governi tecnici: negli ultimi 12 anni dall’entrata in vigore della Legge Fornero, tra deroghe e dirottamenti si sono spesi una cinquantina di miliardi concedendo la pensione a 950mila persone. Ancor più ingiustificata appare l’incapacità di stabilire un quadro certo, a meno che non si voglia continuare ad utilizzare i contributi dei lavoratori per pagare le diverse forme di assistenza che fanno capo all’INPS (compito che dovrebbe ricadere sulla fiscalità generale, come succede negli altri Paesi Europei). Situazione che rende sempre meno concorrenziali le nostre imprese rispetto ai loro competitor e che porta chi percepisce bassi redditi e discontinui a cercare elusioni contributive (anche perché le loro pensioni sarebbero comunque garantite dalla fissazione di parametri minimi).
Già oggi la cosiddetta Legge Fornero prevede, per chi ha aperto la propria posizione contributiva dopo il 31 dicembre 1995, la possibilità di ottenere il trattamento anticipato al compimento dei 64 anni di età a patto che i contributi versati, in almeno 20 anni, portino ad un trattamento non inferiore a tre volte l'Assegno sociale INPS (€ 1.521 per il 2023, € 1.600 circa nel 2024). L’attuale sistema, pur nella non confrontabilità dei parametri, permette, sempre con il sistema contributivo, di andare in pensione a 63 anni, ma richiede 41 anni di contributi. In sintesi, un anno anagrafico in meno, ma 15 in più di versamenti. Discontinuità sempre più irrazionali e spiegabili solo come retaggi storici.
Ormai i sistemi si stanno avvicinando tutti al metodo contributivo; gli unici esclusi sono quelli entrati nel mondo del lavoro prima del 1995, che in continuità di versamenti possono ancora fruire di una minima quota di retributivo). E la strada è segnata. Occorre probabilmente solo più un po’ di pantomima tra le parti sociali affinché tutti possano dire di aver “strenuamente” difeso i diritti dei più bisognosi/meritevoli per giungere ad una definizione dello scenario economico-legislativo che spazzi via (una volta per tutte) l’aggrovigliarsi di parametri che hanno creato e continuano a creare profonde diseguaglianze tra i cittadini.
La forbice tra chi è avvantaggiato e chi penalizzato dal susseguirsi di provvedimenti tampone, cresce sempre più, mentre un algoritmo distributivo, tra contributi versati e attesa media di vita, risulterebbe sicuramente più equo e comprensibile. Il sistema ha bisogno che si stabilisca uno scenario certo per i prossimi anni (già reso incerto dagli sconvolgimenti geopolitici), togliendo agli imprenditori che non sanno quando le loro maestranze lasceranno il lavoro (anzi, come successo con gli operatori sanitari, lo lasciano a “scopo precauzionale”) e i singoli individui in balia delle statistiche e dei programmi dei “presunti esperti” su cosa succederà fra trent’anni.
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