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Pandemia, guerra e classe dirigente

di Emanuele Davide Ruffino|

In presenza di una crisi epocale, il riconoscersi nella classe dirigente diventa un elemento inderogabile per affrontare la situazione. Nelle democrazie, la scelta della classe politica è demandata al corpo elettorale che volentieri disconosce chi ha votato; la selezione della classe imprenditoriale dovrebbe essere effettuata dalla mano invisibile del mercato (sempre più assoggetta alle fluttuazioni internazionali e vincolata da adempimenti burocratici), mentre l’amministrazione della giustizia dev’essere, come ha sottolineato il presidente Mattarella in occasione del suo insediamento, oggetto di profonda revisione. L’assuefazione alle abitudini consolidate

L’affidabilità di chi oggi governa il sistema nazionale e internazionale, al di là dei facili qualunquismi, lascia qualche dubbio. Le classi dirigenti però non s’improvvisano, ma sono frutto di preparazione culturale ed esperienziale. Il fenomeno appare evidente nelle alte gerarchie degli apparati pubblici (eserciti compresi) e privati (organizzazioni pachidermiche la cui non governabilità porta al fallimento) dove, in tempi normali, si fa carriera in base all’anzianità o su parametri burocratici che poi trovarsi impreparati allo scoppio di una crisi. La storia insegna che si vengono a creare dei punti d’insopportabilità, tali da portare alla ribellione. Le scienze sociali faticano però a spiegare come mai si accettano lunghi periodi d’immobilismo, con classi dirigenti inoperose nel tentare di evitare degenerazioni. Per certi versi l’inerzia sociale risulta tranquillizzante: situazione difficile da mantenere nei momenti di crisi. Nel mondo virtuale, le masse rischiano sempre più di essere manipolate, portandole ad accontentarsi di poche cose (panem et circenses), rendendole poco avvezze a rischiare quel poco per seguire “virtute e conoscenza”. Un comportamento imbelle porta poi alcuni poteri ad espandersi a tal punto da pensare d’imporre il proprio volere a dispetto di qualsivoglia forma di civiltà. Per sopravvivere, qualsiasi organizzazione deve dotarsi di “capi” per gestire il diversificare le attività, mentre le funzioni di coordinamento e di governance risultano sempre più determinanti con il crescere della complessità. L’acquisire potere o l’indossare una divisa porta una persona ad identificarsi con questa ed ad esaltarsi per la posizione, in molti casi anche in senso positivo per l’impegno che si profonde nell’interpretare, al meglio, il ruolo e la responsabilità assegnata fino a raggiungere atti di eroismo. Per contro si vengono così a creare poteri che permangono nel tempo, anche quando hanno perso le loro utilità, semplicemente perché nessuno ha la voglia, oltre al coraggio, di contrastarli, nella speranza di ricavarne un vantaggio. Le lobby si organizzano nel difendere la loro posizione ed il rischio di perdere i loro vantaggi induce a commettere atti ignobili. Per quanto decadente, la nostra società deve interrogarsi su chi affidare il potere e come questo viene esercitato. Non a caso, molte democrazie prevedono limiti alla rieleggibilità alle alte cariche istituzionali, così come si ritiene necessaria un certa rotazione tra gli incarichi manageriali. Il problema non è solo giuridico-formale, ma culturale e i conflitti in essere lo rilevano impietosamente. Per affrontare l’attuale situazione occorre grande preparazione e capacità d’innovazione. La pandemia e le conseguenze generate dalla guerra ucraina stanno provocando sconquassi tali da cambiare gli asset portanti la nostra società, obbligando a rivedere i processi di selezione delle classi dominanti che si erano andate a formate su parametri ripetitivi e che si sono insabbiate in tante piccole lotte di potere per conquistare rendite di posizione. Metodi e criteri di selezione

Le crisi rappresentano i punti di rottura degli status quo. La pandemia, come la guerra, obbliga a rivedere le regole del gioco, ma se non si dispone di una cultura di base sufficientemente solida e metabolizzata si rischia di perseguire soluzioni effimere e sconclusionate. Sono molteplici gli scandali che vedono persone non meritorie raggiungere posizioni di potere, non tanto perché scelte su criteri nepotistici e clientelari, ma perché, nonostante i risultati mediocri, tendono a rimanere al loro posto, proprio per la loro duttilità nell’assoggettarsi al volere dei livelli superiori, quanto e soprattutto per la loro attitudine nel non prendere mai decisioni: la regola aurea è che, se non si fa niente, non si compromette la carriera. Allo scoppio di una crisi però qualche cosa bisogna fare e così, ad esempio con l’arrivo della pandemia si è pensato di mettere le rotelline ai banche di scuola e altre decisioni che difficilmente troveranno posto nei libri di economia. Si dice che il grande manager tenda a circondarsi di persone leggermente meno brave di lui in modo da non crearsi alternative in seno: se però questa regola viene protratta nel tempo, si pregiudica la funzionalità del sistema. La superiorità militare russa e dei suoi ufficiali è sicuramente in grado di vincere una singola battaglia, ma non è preparata ad affrontare la voglia di libertà che porta a bloccare un carro armato incastrando una bicicletta nei cingoli, così come il 5 giugno del 1989 il carrista cinese a piazza Tiennamen non sapeva cosa fare di fronte ad uno studente disarmato. Seppur invasati da anni di indottrinamento non è nella natura umana sparare sugli inermi. Si sa come progettare una guerra lampo, forse anche come si contrasta una manifestazione di protesta, ma come si impedisce ai propri connazionali (tra cui anche i propri parenti) di prelevare tutto il possibile dai bancomat di Mosca e di San Pietroburgo non si è preparati. Al punto in cui siamo rischia di essere irrilevante se Putin riuscirà a vincere la sua guerra o si ritroverà politicamente finito, perché i disastri conseguenti alla guerra e alle sanzioni, come già la pandemia, hanno rilevato ancor più l’importanza di una classe dirigente che sappia organizzare le istanze di libertà insite in ogni individuo ed in ogni popolo e che sono destinate ad emergere nel momento del bisogno. Parafrasando un indimenticabile film di Totò, del 1955 che divideva il mondo tra “uomini”, (costretti a subire e patire) e “caporali”, impegnati a sopraffare e vessare i loro simili, c’è da chiedersi se oggi quanto siamo disponibili a essere “manager o caporali”.

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