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Palestina: "sussurri o grida" della candidata Kamala Harris?

di Stefano Marengo


Kamala Harris, ottenuta ufficiosamente la candidatura alla Casa Bianca, ha dichiarato che non starà in silenzio di fronte alla tragedia di Gaza. Dopo nove mesi di morti e distruzioni sarebbe stato lecito aspettarsi da Washington meno parole e più azioni concrete; queste parole, tuttavia, chiariscono che tra i democratici è sempre più forte la consapevolezza che la questione palestinese potrà essere determinante nel decidere l’esito delle presidenziali di novembre. Il problema, a questo punto, è se la candidata Harris è sufficientemente credibile quando parla di Palestina o i cambiamenti di linea politica sono destinati a rimanere lettera morta.

Diciamo subito che il suo ruolino politico è tutt’altro che promettente. Nel 2017, appena insediatasi al Congresso come senatrice della California, Harris promosse insieme ai repubblicani (e a Trump) una mozione di biasimo nei confronti dell’uscente amministrazione Obama, colpevole di non aver posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sugli insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania. Le sue campagne elettorali, inoltre, sono sempre state lautamente finanziate dall’AIPAC, la potentissima lobby israelo-americana che ha già stanziato almeno 100 milioni di dollari in vista delle prossime consultazioni presidenziali e parlamentari, così da garantirsi che i prossimi eletti al Campidoglio e alla Casa Bianca proseguano su una linea il più possibile favorevole a Israele. La vicinanza della Harris all’AIPAC, d’altronde, è testimoniata anche dall’occhio di riguardo che quest’ultima ha sempre avuto per l’attuale vicepresidente, la quale ancora nel 2017 fu tra i relatori ufficiali alla conferenza annuale della lobby. In quella occasione Harris tenne un discorso all’insegna della difesa priva di condizioni degli interessi israeliani, senza mai menzionare, e men che meno criticare, l’occupazione militare dei territori palestinesi, l’espansione degli insediamenti coloniali o l’assedio di Gaza.

A tutto ciò si deve poi aggiungere, pur con il rischio di cadere nel gossip, che lo stesso marito di Harris, Douglas Emhoff, è un noto avvocato newyorkese di religione ebraica, vicinissimo a Israele e alle posizioni delle lobby israeliane. A questo riguardo non è però secondario osservare, a testimonianza della profonda frattura generazionale in atto nell’ebraismo americano, che la figlia di prime nozze di Emhoff, Ella, è da tempo una militante impegnata a sostegno della Palestina.

Venendo a tempi più recenti, negli ultimi nove mesi l’astro della Harris non ha certo brillato per il coraggio delle posizioni politiche assunte. All’indomani del 7 ottobre non fu soltanto tra le prime personalità americane a garantire sostegno incondizionato a Israele, ma sposò senza riserve una narrazione degli eventi costruita sulle fake news di stupri di massa e bambini decapitati, menzogne che sarebbero state smascherate dalla stessa stampa israeliana. Da quel momento in poi, in ogni caso, non si ricorda un’uscita originale di Harris, che è sempre sembrata accodarsi alla politica pasticciata e graniticamente filoisraeliana di Biden e Blinken.

Appaiono quindi piuttosto poco convincenti, se non proprio elettoralistiche, le preoccupazioni espresse per la situazione di Gaza. Verrebbe da chiedersi dove Harris sia stata negli ultimi mesi, quando da vicepresidente avrebbe avuto tutti gli strumenti per esercitare pressioni politiche sullo Studio Ovale, magari insistendo per la sospensione della vendita di armi a Tel Aviv. Ma il fatto è che anche lei, quando si arriva a parlare di Israele, è preda di una sorta di riflesso politico pavloviano al pari di innumerevoli altri dirigenti USA. Lo scorso fine settimana, ad esempio, a margine della ben poco chiara vicenda del razzo che ha colpito il villaggio di Majdal Shams sulle Alture del Golan occupate, Harris si è affrettata ancora una volta a rilanciare il punto di vista israeliano, rinnovando a Israele il suo sostegno “inscalfibile” (“ironclad”, letteralmente “corazzato”).

Non potrà di certo stupire che molti, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, ritengano gli accenni di riposizionamento di Harris poco credibili e comunque inaffidabili. Non basta esprimere preoccupazione per la situazione di Gaza. Non è nemmeno sufficiente non presenziare – ufficialmente per impegni già presi – al discutibile (per usare un eufemismo) discorso del premier Netanyahu di fronte al Congresso in seduta congiunta. Ciò che serve è una presa di posizione chiara e, soprattutto, azioni conseguenti e non meramente simboliche. Se questo non avverrà Harris ben difficilmente potrà conquistare il voto delle minoranze arabe e musulmane, degli studenti e di chiunque in questi mesi sia sceso in piazza per la Palestina. Prevarrà il senso della giustizia e della responsabilità o la spunterà l’attaccamento “incondizionato” all’ideologia sionista e ai cospicui finanziamenti dell’AIPAC? Al momento per i palestinesi, in primo luogo, non c’è alcuna ragione per essere ottimisti.

 





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