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Osservando i nostri tempi

Domenico Cravero

Aggiornamento: 9 ore fa

"Io ci sono", reazione alle crisi esistenziali


di Domenico Cravero


Non è necessaria una catastrofe, per far percepire la vita senza via d’uscita. Basta una condizione critica che persista irrisolta troppo a lungo. La madre di tutte le sconfitte è la ricerca estenuante e senza successo del riconoscimento sociale. Trovare un posto nella società produce la sensazione di contare e di avere valore. Precarietà e solitudine intaccano la stima di sé e il valore personale. Innescano un senso generalizzato d’inadeguatezza di capacità e di mezzi, la sensazione di essere senza futuro. Oggi, infatti, il futuro non significa più promessa; si è trasformato in minaccia. La percezione dell’inutilità di ogni sforzo amplifica la sensazione della vulnerabilità. Neppure la condizione della migrazione più drammatica produce un tale stress, almeno fino a quando la situazione è vissuta come transitoria. Quando però una condizione di precarietà si stabilizza, si diffonde la sensazione di non avere via d’uscita. Si perde la capacità di reagire, si diventa indifferenti agli stimoli, si azzera la creatività progettuale.

La maggioranza dei giovani riesce a percorrere il lungo tempo dell’attesa, sviluppando una propensione realistica ad adattarsi alle condizioni, scegliendo la strada di un diffuso realismo. La perdita del sogno giovanile produce tuttavia un problema in aggiunta: l’afasia cognitiva ed emozionale, cioè l’incapacità di esprimere i talenti, di esporre le risorse, di raccontare pubblicamente il disagio, di difendere i giusti diritti di cittadinanza. Tramonta l’utopia di cambiare il mondo, da sempre caratteristica della giovinezza.

Possono essere tre le forme della delusione e dell’umiliazione per la frustrazione delle attese: la protesta muta, l’esito violento, la modificazione artificiale dello stato mentale nelle droghe. Nella protesta muta (l’ansia, la depressione, il silenzio) ci si ritira dalla società. La percezione di un irreparabile sconforto si mescola con la rabbia, lo scoramento, il senso di vergogna. Uno sbocco alternativo consiste nella soluzione violenta. Sono i “rumori assordanti” delle continue ribellioni in famiglia, dei comportamenti aggressivi a scuola, della partecipazione a gruppi di coetanei problematici. La violenza può diventare anche propensione al furto, al mito del denaro facile, al teppismo e al bullismo. L’abuso di droghe e il gioco compulsivo, infine, sono le espressioni più evidenti della fuga dalla realtà. Le dipendenze sono il soffocamento totale della comunicazione, sono il silenzio della persona. Il loro danno più rilevante non è però solo personale ma è anche sociale: spegnendo nei giovani la creatività, le droghe bloccano il rinnovamento della società.

Sono evidenti i segni del crollo personale e sociale della delusione giovanile. La ricerca sociale internazionale li descrive con concetti e parole evocative quanto drammatiche. Lo sfocamento del senso del limite (shamelessness: spudoratezza) è la conseguenza della perdita della capacità decisionale. Si perde il controllo di sé, si svuota l’interiorità emozionale di ogni partecipazione (thoughtlessness: sconsideratezza). Si fugge dalle responsabilità, si diventa incapaci di durata, si rimandano le decisioni importanti, in un’accentuata pulsione a essere senza tregua altrove (restlessness: agitazione). Si scavano il vuoto, la perdita generazionale, lo sradicamento sociale (purposelessness: mancanza di obiettivi). Comune alle diverse condizioni è lo stato permanente (-ness) di mancanza e di vuoto (-less). Questo stato d’inazione (-lessness) è particolarmente diffuso in Italia, forse perché più profonda è stato il disorientamento educativo, più antica la corruzione politica.

Il cronicizzarsi della sconfitta minaccia la speranza di farcela, inaridisce le risorse emozionali, blocca le motivazioni. La riscossa giovanile inizia quindi con l’espressione di sé: “Io ci sono!”. Un’esperienza vissuta non diventa consapevolezza e, quindi non è ancora completa, finché non è raccontata e rappresentata. Si prende coscienza del proprio vissuto sia narrandolo, sia ascoltando i racconti altrui. Servono spazi, reali e virtuali, del racconto di sé.

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