Novara, il pigiama party dei diritti civili
di Menandro|
Che necessità c’è di un altro commento? Ammetto di essermelo chiesto da persona timorosa di abbassare il livello cognitivo e intellettuale che la manifestazione di ieri a Novara si è conquistata nell’agorà dei diritti civili. Infatti, ci sono momenti in cui è più che legittimo rimanere dietro le quinte, stare al proprio posto, in altri termini, riconoscere ad altri il primato della civiltà, soprattutto se sono ambasciatrici e ambasciatori di richieste in nome della libertà individuale. E ciò accade quando si deve riconoscere con ammirazione che quelle stesse menti umane più di altre sanno toccare con delicatezza le corde più squisite della convivenza civile. Esattamente come ieri a Novara, dove decine di figuranti dei diritti civili, autentici maître à penser del “no” indifferenziato come l’immondizia, hanno riportato all’attenzione pubblica il più grande genocidio del Novecento che all’epoca, soprattutto all’indomani della “Notte dei cristalli” in Germania, tra il 9 e 10 novembre 1938, avrebbe meritato un forte e deciso “no” della comunità internazionale. Parliamo dell’Olocausto, della Shoah, dell’invenzione di un sistema concentrazionario che ha fatto passare per il camino milioni di nostri simili di religione ebraica. Quei signori a Novara lo hanno ricordato – non si ricorda mai abbastanza – palesando una non superficiale conoscenza della Storia, attraverso l’indumento-simbolo di quella tragedia: il pigiama a strisce che ricopriva ombre più che esseri umani, quelle stesse ombre che apparvero ai soldati dell’Armata rossa che il 27 gennaio del 1945 aprivano i cancelli della “fabbrica della morte”, il lager di Auschwitz-Birkenau. Scene che nelle settimane successive divennero tristemente familiari anche ai soldati inglesi e americani man mano che risalivano verso il cuore dell’Europa. Detto questo, vi sono più domande che esigono una risposta dai figuranti dei diritti civili a spasso in una giornata uggiosa: per quale ragione a Novara quelle persone hanno rimestato simboli nati da esperienze dolorose e a loro tendenzialmente estranee? Per quale ragione quegli stessi simboli del passato sono stati adattati a letture e circostanze del presente con cui non esistono, se non in fantasia, punti di contatto o di prossimità? In ultimo: perché dal loro presente, che appartiene a tutti – cioè la pandemia e le modalità di contrasto – non hanno ancora tratto un linguaggio autonomo e identificabile come originale per non essere costretti a ricorrere a identità scioccanti del passato? Il nulla mischiato al niente, c’entra qualcosa?
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