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Nordio e l'estetica della giustizia

Vice

Aggiornamento: 7 giorni fa

di Vice


Si ha la sensazione, risentendo le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio, parole che tradiscono una veemente rivalsa verso quella che è stata la sua categoria d'elezione, che una pur minima forma d'estetica, ma la forma è anche sostanza, della giustizia in Italia non abbia più diritto di cittadinanza. Sia stata smarrita. Si potrà obiettare che con quello che dice, sostiene e fa Donald Trump, dovremmo essere oramai anestetizzati al linguaggio privo di freni inibitori, e dunque arrenderci a tutto ciò che ne consegue. Ma, considerate le differenze ancora esistenti tra Italia e Stati Uniti, non vogliamo rinunciare del tutto alla speranza che non tutto sia perduto, che l'estetica della giustizia non sia vestita di panni dozzinali, se non logori, di cui disfarsi. Possibilmente in fretta. E magari, mettendola al ludibrio dell'opinione pubblica.

Si dirà: la situazione è da tempo grave e le premesse non sono rosee. Ed oggi, 22 gennaio, si sono confermate tendenti allo scuro, grazie allo stile del Guardasigilli che, secondo costume, non è andato troppo per il sottile ed ha inferto i soliti colpi d'accetta all'associazione magistrati, colpevole - questa volta - di vivere in una  "cultura perniciosa della corporazione". Giudizio espresso con l'inossidabile e "briosa" cantilena a difesa della separazione delle carriere, puntello principale della sua riforma, sgradita magistrati e non, interpretata come assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo per rendere "giustizia"... ai più forti. Non proprio l'emblema di uno Stato di diritto e democratico.

Ma il ministro Carlo Nordio, ovviamente, ha un'idea contraria. Che si rispetta, anche se non la si condivide, soprattutto quando sostiene che "il pubblico ministero è già un super poliziotto, con l’aggravante che, godendo delle stesse garanzie del giudice, egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità". Cioè, avrebbe licenza di distruggere la vita degli altri. Che in numerosi casi è dolorosamente accaduto, sia attraverso indagini più finalizzate alla spettacolarizzazione che alla serietà professionale, sia con condotte lesive nei confronti della dignità e delle garanzie degli indagati. Tuttavia, assumere una parte (comunque piccola) per il tutto rimane un'operazione discutibile e diseducativa per la collettività, che ha diritto a credere in una giustizia giusta e che, soprattutto, funzioni. Cosa che non avviene per una serie di ragioni, a cominciare dai perduranti vuoti negli organici dei Tribunali, che poco o nulla hanno a che spartire con la separazione delle carriere, che non può essere considerata la panacea di tutti i mali.

Di conseguenza, proprio in nome di un'estetica della giustizia, che quotidianamente si deve specchiare anche nei comportamenti dei magistrati, e che ha anche nella moderazione (e appropriazione) del linguaggio uno dei capisaldi per formare nei cittadini il rispetto che si deve alla magistratura, appare quantomai forzato il giudizio del ministro Nordio che suona come grave accusa, peraltro lanciata - ed è singolare - da un ex Pm.

Il che conduce a domandarsi se quel "potere immenso", di cui si parla per esperienza diretta, e quindi cognizione di causa, sia stato esercitato "senza alcuna reale responsabilità" anche dall'attuale ministro della Giustizia; oppure è stato il contrario, e ne siamo arciconvinti, che il ministro Nordio sia la prova vivente che non esiste un nesso perverso tra ruolo e potere.

In qualunque caso, come i cittadini sanno, i controlli sull'operato dei Pm come dei giudici sono presenti nel nostro ordinamento giudiziario. Non rimane che applicarli con la giusta e corretta severità. Se è un problema, lo Stato ha i mezzi adeguati per risolverlo. Ma non si usi lo spauracchio della "cultura perniciosa della corporazione" per deturpare l'estetica della giustizia, perché di lì a demolire l'indipendenza della magistratura il passo è breve.




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