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Netanyahu specchio di un modo di essere israeliani

di Stefano Marengo


Nella società israeliana contestare il “personaggio” Netanyahu e le sue scelte tattiche non significa affatto, automaticamente, contestare il suo approccio alla questione palestinese e il suo progetto politico di una Grande Israele che, con la forza, impone il proprio potere in Medio Oriente. Si tratta di temi ben distinti, eppure bisogna prendere atto che ancora oggi, in Europa e negli Stati Uniti, c’è chi non vede la distinzione. O finge di non vederla.   

Non c’è alcun dubbio che Netanyahu sia per l’opinione pubblica israeliana il politico più controverso dal 1948 a oggi. Alcuni lo considerano molto semplicemente un corrotto in fuga dalla giustizia, e per questo nutrono nei suoi confronti un’antipatia viscerale. Altri si oppongono non meno visceralmente alle sue politiche interne, prima fra tutte il disegno di riforma del sistema giudiziario, funzionale appunto a mettere il premier al riparo dai processi. Rimane tuttavia il fatto che, da tutte queste contestazioni, il problema dell’occupazione e della colonizzazione decennale della Palestina è sempre stato escluso, segno che esso non è percepito come una questione fondamentale oppure, più realisticamente, che su questo specifico tema la maggioranza degli israeliani ha poco o nulla da rimproverare a Netanyahu.

Se il sospetto che le cose stessero così esisteva già prima del 7 ottobre 2023, ciò che è avvenuto nell’ultimo anno ha tolto ogni dubbio. Già a metà gennaio 2024, ossia a oltre tre mesi dall’inizio del massacro di Gaza e con decine di migliaia di morti censiti, un sondaggio divenuto celebre aveva evidenziato come, per il 95% degli ebrei israeliani, l’impiego della forza militare contro i palestinesi fosse appropriato o addirittura troppo blando.

Nei mesi successivi questi numeri sconvolgenti si sono sensibilmente ridimensionati, ma non certo per un’improvvisa – e improbabile – presa di coscienza di fronte alla devastazione subita dalla popolazione gazawi. Al contrario, settori significativi dell’opinione pubblica israeliana si sono accorti che il perseguimento dell’opzione militare non avrebbe condotto alla liberazione dei prigionieri del 7 ottobre.

Da qui la mobilitazione per indurre il governo a raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e uno scambio di ostaggi con la resistenza palestinese. In altre parole, coloro che ancora oggi in Israele manifestano contro Netanyahu, o almeno la loro maggioranza, non contestano al premier l’uso della forza in quanto tale, ossia la distruzione di Gaza, ma, più sottilmente, il fatto di non aver conseguito gli obiettivi dichiarati all’inizio della campagna.

Ad alcuni questa lettura potrà apparire forzata, ma gli avvenimenti delle scorse settimane parlano piuttosto chiaro. A fine agosto, ad esempio, il Jerusalem Post ha pubblicato una rilevazione secondo la quale il 62% degli ebrei israeliani si è detto favorevole al pieno impiego della forza militare contro Hezbollah. Negli ultimi giorni, inoltre, dopo l’attacco terroristico realizzato dal Mossad in Libano con l’esplosione di migliaia di dispositivi elettronici, tutte le agenzie di sondaggi hanno dato conto di una significativa crescita della popolarità di Netanyahu e del consenso per il suo partito, il Likud, che nell’eventualità di nuove elezioni potrebbe conquistare la maggioranza relativa dei seggi alla Knesset.

Se l’opinione pubblica israeliana conferma a netta maggioranza di non avere nulla in contrario alla guerra contro i palestinesi e contro il Libano, i suoi rappresentanti politici non sono da meno. Senza citare, per ovvie ragioni, i componenti estremisti della maggioranza di governo, il leader dell’opposizione Benny Gantz ha già garantito pieno appoggio all’esecutivo in vista dell’imminente invasione del paese dei cedri, mentre il presidente Isaac Herzog – lo stesso che mesi fa veniva immortalato mentre firmava le bombe dirette a Gaza – ha minacciato attacchi ancora più violenti dopo i bombardamenti a tappeto di diversi centri abitati libanesi.

Dopo un anno in cui il sangue dei palestinesi in seguito all'attacco del 7 ottobre subito da Israele, è stato versato a fiumi non possiamo che osservare con angoscia l’ulteriore escalation di questi giorni. Ma soprattutto, e con altrettanta angoscia, non possiamo fare a meno di interrogarci sulle ragioni della persistente sintonia tra la maggioranza degli israeliani e il loro governo quando si tratta di ricorrere alla violenza più estrema contro “gli arabi”. La risposta a tale domanda non può che collocarsi a livello ideologico. In breve, si tratta di prendere atto che il desiderio di completare la pulizia etnica dei palestinesi e di imporre il dominio di Israele nella regione non è soltanto il programma dei vertici di Tel Aviv, ma l’obiettivo che qualifica il sionismo come progetto colonialista e suprematista che, in quanto tale, struttura nel profondo lo stato e la società israeliana. Come buona parte del sud del mondo ex coloniale sa bene, è proprio qui, a questo livello ideologico, che sta il vero problema quando si parla di questione israelo-palestinese. Non è forse giunto il momento che anche Europa e Stati Uniti lo riconoscano e ne traggano le dovute conseguenze? Non è forse tempo di smettere di dare carta bianca alla brutalità sionista e capire che stabilità e pace non saranno mai possibili senza un radicale percorso di decolonizzazione?

Oggi, infatti, decolonizzare la Palestina non significa “soltanto” rendere giustizia a un popolo che da tre quarti di secolo vive nell’esilio dei campi profughi o sotto occupazione militare, senza libertà e senza diritti. Significa anche dare a coloro che adesso sono cittadini israeliani l’occasione di liberarsi del fardello ideologico del sionismo, della disumanizzazione e del fanatismo che esso induce e che non saranno mai in grado di garantire un avvenire di sicurezza. Non si tratta certamente di un programma a breve termine né facile da realizzare. Rimane, però, un programma necessario soprattutto per il popolo che ha conosciuto la Shoah.

 

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