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Stefano Marengo

Moldavia e Georgia, elezioni e l'ossessione dei luoghi comuni

Aggiornamento: 5 nov

di Stefano Marengo


La vittoria in Moldavia della filo-europeista Maia Sandu ha ricalcato il copione già visto due settimane fa in occasione del referendum sull’adesione del paese all’Unione Europea. Anche al ballottaggio delle elezioni presidenziali, infatti, sono stati decisivi i voti della diaspora, ossia dei moldavi che risiedono all’estero, i quali hanno sostanzialmente sconfessato l’orientamento dei cittadini che vivono in patria e che a maggioranza avevano sostenuto lo sfidante della Sandu, ossia l’ex procuratore generale Alexandr Stoianoglo, un politico che i nostri media descrivono comunemente come filo-russo ma la cui piattaforma, in realtà, intendeva collocare il paese in una posizione intermedia e di collaborazione tanto con l’Oriente russo e cinese quanto con l’Occidente europeo e americano.


Letture politiche da stadio

Anche a voler prescindere dalle accuse reciproche di ingerenze, brogli e manipolazioni – a titolo esemplificativo ricordiamo comunque che, in occasione del primo turno, il governo nominato dalla Sandu inviò in Russia appena 10mila schede elettorali a fronte di una popolazione moldava residente stimata in almeno 150mila persone – è chiaro che a emergere è una grande questione politica. Fino a che punto è sostenibile che l’esito di un’elezione sia determinato da chi vive all’estero spesso da decenni e con legami fisiologicamente sempre più tenui con la sua terra d’origine? All’atto pratico, Sandu si troverà a presiedere un paese in cui non gode del sostegno della maggioranza popolare. Come si comporterà? Terrà conto delle divisioni interne o procederà senza compromessi con il suo programma di adesione all’UE?

Il caso moldavo pone una questione che dovrebbe indurre a riflettere con una urgenza e serietà sullo stato della democrazia, in particolare sulla capacità delle classi dirigenti di essere rappresentative e in sintonia con i cittadini. Dobbiamo tuttavia prendere atto che queste stesse classi dirigenti appaiono refrattarie a porsi domande scomode, come dimostrano ancora le reazioni dei principali leader europei di fronte all’elezione della Sandu, presentata come una “vittoria per l’Europa” e “una sconfitta per Putin”. Si tratta di una lettura banalizzante, semplicistica e mistificatoria – una lettura da tifoserie calcistiche – che svilisce la complessità del contesto, oltre che le preoccupazioni e le speranze dei cittadini.

Questa postura tradisce una tendenza ormai sempre più invasiva ad osservare il mondo come un luogo privo di sfumature, come se la realtà dovesse per forza essere polarizzata secondo il detto “chi non è con me è contro di me”, e chi è contro di me – aggiungiamo – agisce sicuramente in modo illecito. Un esempio ancora più significativo di quello moldavo è fornito dalle recenti elezioni parlamentari in Georgia, dove la sconfitta dello schieramento filo-europeista ha fatto gridare da subito a brogli elettorali orditi dai filo-russi, e poco importa che il riconteggio parziale delle schede abbia confermato i risultati iniziali e che, stando a quanto dichiarato dalla Procura generale, “persone che hanno pubblicamente affermato di avere informazioni e prove su possibili reati commessi durante le elezioni non hanno ancora cooperato con le inchieste e rifiutano di fornire le relative informazioni”.


Analisi prevenute su Sogno georgiano

Altrettanto gratuita e non pertinente è poi l’etichetta di forza filo-russa assegnata allo schieramento che si è affermato nelle urne. Come forza di governo, negli ultimi dodici anni Sogno georgiano non solo ha dovuto affrontare diverse tensioni con il Cremlino sui dossier "Abcasia e Ossezia del sud", ma per un lungo tratto di strada si è collocato su posizioni decisamente favorevoli all’Unione Europea e addirittura all’Alleanza atlantica. La sua piattaforma politica, nel corso degli anni, è certamente andata incontro a diversi cambiamenti, ma ciò non significa che oggi esso guardi con ostilità all’Occidente e, men che meno, che abbia siglato un patto luciferino con Mosca. Al contrario, Sogno georgiano, come per molti versi ha fatto l’opposizione moldava, ha compreso che la traiettoria storica del paese, oltre alla sua posizione geografica, indica che la posizione ottimale della Georgia è quella di un ponte tra est e ovest e che, in quanto tale, non ha alcun interesse a schierarsi in via esclusiva con l’uno o l’altro polo.

D’altra parte, dal voto moldavo così come da quello georgiano emerge con forza anche l’urgenza di sottrarsi al tragico destino dell’Ucraina, paese che è stato dapprima utilizzato dal blocco atlantico per riaffermare il primato di potenza statunitense nei confronti della Russia e, quindi, sottoposto a ritorsione da parte della Russia stessa.

Tutte queste vicende, prese singolarmente e nel loro complesso, dimostrano quanto sia miope l’atteggiamento delle classi dirigenti europee nei confronti dell’Europa orientale, nella fattispecie delle ex repubbliche sovietiche. Si tratta però di una miopia voluta, intenzionale. Inseguendo continui allargamenti a est, l’Unione europea ha ormai da tempo perso la possibilità di raggiungere un’integrazione politica coerente e, su questa base, di affermare una posizione autonoma e autorevole sullo scacchiere internazionale. La strada che è stata intrapresa ha invece ridotto l’Europa a soggetto vassallo, in ultima analisi a strumento a disposizione della politica internazionale della potenza egemone, ossia degli Stati Uniti, che oggi appaiono sempre più in preda a una crisi strutturale del loro modello di sviluppo e quindi tanto più ossessionati dal bisogno di confermare il loro predominio su scala globale.

Per questa ragione occorre capire che noi europei, in questo momento, ci troviamo su un sentiero che nasconde molti rischi e, se ci sono, ben pochi vantaggi. Un sentiero tracciato con scarsa lucidità e ancora meno razionalità. Storicamente, infatti, gli imperi e le grandi potenze hanno sempre avuto l’accortezza di porre una certa distanza tra i propri rispettivi confini, creando aree cuscinetto neutrali che impedissero attriti diretti e potenzialmente catastrofici (e queste aree, sia detto per inciso, sono state spesso capaci di prosperare proprio grazie alla loro neutralità). Dare ascolto a questo principio e rinunciare all’illusione ideologica di una realtà polarizzata e priva di sfumature è oggi il compito politico più urgente per un’Europa che – bisognerebbe finalmente ammetterlo – va ripensata e ricostruita dalle fondamenta.

 

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