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Jacopo Bottacchi

Mercosour-UE: da 25 anni annunci e "momenti storici" senza fine

Aggiornamento: 2 giorni fa

di Jacopo Bottacchi


Venerdì 6 dicembre, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen si è recata a sorpresa a Montevideo, capitale dell'Uruguay, per firmare l’intesa sull’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Mercosur, il mercato comune del “cono sud”, uno dei (tanti) progetti di integrazione regionale presenti in America Latina.

La firma del trattato è senza ombra di dubbio un momento importante nelle relazioni tra Europa e America Latina, sia a livello politico che economico: l’accordo, che riguarderebbe quasi 800 milioni di persone e circa 1/5 dell’economia globale, mira a rimuovere progressivamente i dazi doganali, creando la più grande zona di libero scambio del pianeta.


Una negoziazione estenuante

Ma, nonostante gli annunci entusiasti siamo ben lontani dalla fine di una lunga storia, che ebbe origine ormai 25 anni fa, nel 1999. Storia di un altro secolo, insomma. L’accordo ora dovrà essere ratificato, in un processo tutt’altro che scontato. Stiamo già assistendo a pesanti critiche da parte delle associazioni di categoria degli agricoltori europei, che lo ritengono svantaggioso in termini di competitività e squilibrato a livello normativo, a causa dei differenti standard applicati al settore nel Continente europeo e in Brasile, Paraguay, Argentina, Uruguay e Bolivia, i membri attuali del Mercosur (il Venezuela è sospeso ormai dal 2016, mentre Cile, Colombia, Ecuador e Perù sono “solamente” membri associati). Memori di quanto successo negli scorsi mesi, possiamo attenderci che le proteste degli agricoltori europei saranno rumorose e destinate ad influenzare pesantemente il dibattito pubblico e, conseguentemente, le prossime tappe verso la ratifica.

Il Mercato comune del Sud (MERCOSUR) nacque nel marzo del 1991 quando Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay firmarono il Trattato di Asunción. Dal punto di vista politico ed economico, parliamo quindi di un accordo nato in un contesto radicalmente diverso: stiamo parlando degli anni del “Washington Consensus”, ovvero dell’applicazione delle ricette neoliberiste contenute nei “dieci punti” codificati dall’economista britannico John Williamson (1937- 2021).

Nelle intenzioni dei suoi creatori, il consenso di Washington avrebbe dovuto essere la soluzione che avrebbe permesso di raggiungere il tanto auspicato sviluppo economico attraverso una politica fiscale più rigida, liberalizzazioni economiche, privatizzazioni, deregolamentazione e apertura agli investimenti. Già alla fine del decennio, tuttavia, quella “ricetta” mostrò drammaticamente tutti i suoi effetti collaterali. Alla stabilizzazione macroeconomica e alla crescita del PIL, infatti, non corrispose un vero sviluppo. Molti paesi dovettero affrontare gravi conseguenze dal punto di vista sociale, legate ad esempio all’aumento del tasso di disoccupazione, ma anche quelle finanziarie, con economie nazionali sempre più dipendenti dagli investimenti diretti esteri e, di conseguenza, fragili alle crisi internazionali, da quella delle “tigri asiatiche” del 1997-1998 a quella russa del 1998, per arrivare infine alla drammatica crisi argentina del 2001.  


La virata progressista dei Paesi sudamericani

Si aprì così una fase “nuova” per molti paesi latinoamericani, quella del cosiddetto “giro a sinistra”: ricordiamo qui le affermazioni di Ricardo Lagos in Cile, Nestor Kirchner in Argentina, Lula in Brasile, Hugo Chavez in Venezuela e, pochi anni dopo, di Tabarè Vazquez in Uruguay ed Evo Moralez in Bolivia, solo per citare alcuni esempi.

Molti paesi dell’America Latina “cambiavano direzione”, ed in alcuni casi per la prima volta i partiti progressisti si trovavano a governare, implementando nuove agende politiche e sociali. Basti citare gli esempi di Argentina e Brasile, la cui politica economica si sarebbe ispirata al cosiddetto “neodesarrollismo”, una dottrina economica che considerava prioritario per lo sviluppo la presenza di un forte settore industriale nazionale e che identificava come elementi centrali per raggiungerlo l’intervento statale e il nazionalismo economico.

Un accordo di liberalizzazione commerciale tra Unione Europea e Mercosur, di conseguenza, non rientrava più tra le priorità politiche, anche se il negoziato non venne mai definitivamente abbandonato. Una progressiva “discesa” nell’ordine delle priorità avvenne, analogamente, anche in Europa, anche a causa dei forti dubbi di alcuni dei paesi membri dell’Unione, Francia in testa, legati agli standard ambientali e sanitari dei prodotti agroalimentari dell’America Latina, ed in particolare all’uso di pesticidi in agricoltura e di antibiotici e ormoni nell’allevamento.

In realtà, dal punto di vista Europeo uno dei grandi problemi non dichiarati della trattativa era l’impatto delle liberalizzazioni per il mercato interno: una volta eliminate le barriere doganali, i prodotti latinoamericani sarebbero stati estremamene competitivi, rischiando di mettere in difficoltà i produttori europei.


La crisi europea e il nuovo protagonismo cinese

Un nuovo momento di svolta nelle relazioni tra le due regioni fu la crisi del 2007-2009 e quella conseguente dei debiti sovrani. Non è ovviamente questa la sede di ripercorrere le fasi di un evento che ha segnato profondamente la politica mondiale dello scorso decennio, ma vale la pena considerarlo proprio alla luce delle relazioni transatlantiche.

Nonostante i ripetuti annunci e proclami di “vicinanza” e “fratellanza” tra Europa e America Latina, ribaditi più e più volte dall’Alto rappresentante dell’Unione europea di turno, i rapporti tra le due regioni si raffreddarono progressivamente. La crisi dell’Unione e il disimpegno del continente nello scenario globale fu l’occasione perfetta per la Cina, che emerse come attore politico ed economico rilevante anche in America Latina.

Per citare alcuni dati, negli ultimi due decenni gli scambi tra Cina e America Latina sono aumentati di ben 35 volte, raggiungendo un giro d’affari annuo di circa 500 miliardi; oggi il paese asiatico è il principale partner commerciale di tutti quelli della regione, con le sole eccezioni di Messico e Colombia. Le direttrici dell’espansione cinese furono principalmente due: da un lato le materie prime, sia durante il boom dei prezzi d’acquisto nel primo decennio del nuovo millennio che nella decade successiva; dall’altro, proprio i prodotti agricoli, che avrebbero dovuto essere tra i grandi protagonisti dell’accordo UE-Mercosur.

Ma non possiamo trascurare il significato politico di questo nuovo impegno, con il sogno dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) di costruire un secondo “polo” di potere nello scenario globale. E se, almeno fino alla grande crisi politica ed economica brasiliana iniziata nel 2014, il Brasile avrebbe chiaramente dovuto essere la superpotenza regionale, sognando al tempo stesso una leadership globale, nell’ultimo decennio le ambizioni di quel paese hanno dovuto ridursi a causa dei gravi problemi interni, lasciando così “campo aperto” per la penetrazione cinese.  

 

Le tappe più recenti della storia

Le discussioni sull’Accordo di Libero Scambio sono riprese seriamente a partire dal 2019, non senza enormi difficoltà. Se abbiamo già parlato dei dubbi da parte europea, vale la pena menzionare anche quelli latinoamericani.

La prima grande critica è legata ai regolamenti ambientali europei, che a partire dal 2026 impediranno l’accesso al mercato di quei prodotti provenienti da aree deforestate dopo il 2020. Da questo punto di vista, i Paesi latinoamericani accusano l’Unione di non riconoscere gli sforzi che già sono stati fatti per garantire una maggiore tutela ambientale. Un tema non secondario, perché se nelle ambizioni europee l’accesso al mercato comune dovrebbe essere una spinta decisiva verso la sostenibilità ambientale, accompagnata per altro da ingenti investimenti attraverso il Global Gataway (nell’accordo sono previsti 1,8 miliardi per favorire le transizioni verdi e digitali nei paesi Mercosur) dal punto di vista latinoamericano questa scelta potrebbe invece essere interpretata come un paradossale inserimento di nuove “barriere” per il commercio all’interno di un accordo di libero scambio.

E proprio in questo senso, un elemento di conflitto ancor più importante, ben radicato proprio in quella “storia comune” spesso sbandierata dalle istituzioni europee, è legata a quello che è stato definito una sorta di “colonialismo normativo” dell’Unione Europea, che secondo i critici vorrebbe imporre i propri standard anche alla regione. Non possiamo poi sottovalutare anche le preoccupazioni del comparto industriale, in particolare brasiliano, per il quale un intervento statale (più o meno massiccio) continua ad essere necessario e prioritario, e che teme di vedere il proprio mercato interno “invaso” da prodotti europei.


La posizione del presidente argentino Milei

Un capitolo a parte poi lo merita l’Argentina di Javier Milei che, fedele ai suoi principi economici, è da un lato entusiasta delle liberalizzazioni, ma dall’altro continua a presentarsi come grande nemico del multilateralismo, ritenendo invece prioritario che ogni paese sia libero di stringere accordi bilaterali con gli altri, senza “passare” dal Mercosur. In questo senso, l’ambizione dichiarata di Milei è quella di diventare uno dei partner privilegiati di Donald Trump, arrivando a firmare un ulteriore trattato di libero commercio proprio con gli Stati Uniti. L’atteggiamento di Milei per altro, ha già creato diversi problemi nell’ultimo anno, in particolare per quanto riguarda le relazioni tra Argentina e Brasile, che per dimensioni e rilevanza economica e politica sono ovviamente i due paesi più influenti della regione.

In linea generale, tuttavia, possiamo dire che le reazioni all’annuncio dell’accordo sono state generalmente positive; il riassunto migliore della vicenda forse proviene dal comunicato del governo brasiliano, che lo definisce “benefico, strategico e necessario”.

Nonostante l’entusiasmo dei rappresentati delle istituzioni europee e di alcuni Capi di Stato latinoamericani, possiamo attenderci che le critiche, provenienti sia dai settori produttivi che dalle associazioni per la tutela ambientale continueranno a crescere nelle prossime settimane.

Non possiamo poi sottovalutare il ruolo che giocherà anche l'Italia: da un lato, visto il grande rilievo delle esportazioni per l’economia del nostro Paese, sembra quasi impossibile rinunciare alle rinnovate opportunità di un mercato così ampio; dall’altro il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha già dichiarato che “se il quadro complessivo resta così com’è, l’Italia difficilmente sarà favorevole. Ma non c’è chiusura totale. Si può trovare una soluzione se l’Europa non sacrifica ancora una volta gli agricoltori a favore di altri settori”.

Francia, Polonia, Austria e Olanda sono state tra i più fermi oppositori all’accordo; per procedere alla ratifica da parte del Consiglio Europeo servirà quindi che tutti gli altri paesi, Italia compresa, votino a favore. Senza poi considerare che la ratifica dovrà anche passare dai Parlamenti nazionali dei cinque paesi del Mercosur, con un esito tutt’altro che scontato in alcuni casi.

Situazione ancora complicata, quindi, anche e soprattutto perché i decenni di annunci ci insegnano che, al di là delle valutazioni puntuali sui contenuti dell’accordo (di cui si potrebbe discutere ancora a lungo) serviranno ancora molti sforzi per far sì che quello della scorsa settimana sia davvero un “momento storico” e non l’ennesimo capitolo di una storia infinita, di un altro secolo.

 

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