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Lo specchio deformato di Israele Dietro l'ultima strage a Rafah


Li hanno uccisi a dispetto di qualunque convenzione internazionale e, soprattutto, di quel minimo di umanità cui l'esercito israeliano guarda con lo stesso allarme che si prova per la merce avariata. C'è voluta un'inchiesta del New York Times, suffragata da un inequivocabile video, per denunciare in maniera circostanziata al mondo l'assassinio di 15 paramedici e soccorritori palestinesi avvenuto due settimane fa a Rafah, nel quartiere Tal al-Sultan, nei pressi del confine egiziano, dopo la rottura della tregua che durava da mesi.

Una strage. La versione iniziale, propalata dall'Idf, addebitava in toto la responsabilità ad un convoglio di ambulanze della Mezzaluna rossa che procedeva in modo sospetto e privo dei necessari contrassegni di identificazione. Ieri, sabato 5 aprile, i comandi militari di Tel Aviv hanno smentito quella ricostruzione che in presenza di una minaccia (inesistente) ne aveva giustificato l'immediato (e a più riprese) diritto all'uso delle armi. Dopo il tiro sicuro e privo di rischi su bersagli disarmati, le vittime sono state seppellite sul posto, poi segnalato per facilitarne il ritrovamento. Operazione assolta dai funzionari dell'Onu con l'intervento dei militari.

All'inizio del mese, come riportato dalle agenzie di stampa, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha condannato l’attacco ai veicoli di soccorso, puntando il dito sulla condotta dell’esercito israeliano durante e dopo quello che viene difficile etichettare come puro incidente. Ulteriori interrogativi, tra l'altro, erano stati espressi anche dal quotidiano britannico The Guardian con l'apporto di inquietanti testimonianze che descrivevano "alcuni dei paramedici palestinesi con le mani legate", in quella che appariva un’esecuzione.

Le rivelazioni del New York Times hanno dunque offerto una sponda concreta alle affermazioni a caldo dell'agenzia umanitaria delle Nazioni Unite e alle successive ricostruzioni riportate da France Presse, secondo cui le informazioni disponibili indicavano "che la prima squadra è stata uccisa dalle forze israeliane il 23 marzo, e che altre squadre di emergenza e di soccorso sono state colpite una dopo l’altra per diverse ore mentre cercavano i loro colleghi dispersi".

Questo ennesimo e crudele episodio mostra oramai quanto sia gratuita la discussione attorno alla parola genocidio per Gaza e, in particolare, quanto sia controproducente il distinguo tra responsabilità dello Stato di Israele e del governo Netanyahu da una parte e cittadini israeliani dall'altra. La volontà di eliminare il popolo palestinese si rivela quotidianamente e i primi a non essere minimamente interessati da accademiche disquisizioni sono proprio le vittime che reclamano all'opposto una rapida soluzione che li sottragga dall'incubo in cui sono precipitati dal 7 ottobre 2023.

Al netto di situazione complesse sul piano storico e politico, si potrà argomentare che non sono innocenti i palestinesi che hanno dato sostegno al terrorismo di Hamas. Alla stessa stregua non sono innocenti gli israeliani che condividono il governo Netanyahu. Ma è proprio contro la somma di queste due negatività che si deve rivolgere l'iniziativa delle istituzioni sovranazionali, dell'Occidente e di altri grandi Paesi.

Se non si costringe Israele a sospendere i bombardamenti e le operazioni di terra nella Striscia di Gaza, quale garanzia si potrà mai offrire a quei cittadini israeliani, che rifiutano l'estremismo, l'odio e la violenza come elemento precostituito di identità, per disconoscere e prendere le distanze dalla prepotenza omicida di uno Stato che si proclama autenticamente democratico, mentre chi lo comanda ogni giorno fa a brandelli le sue stesse Leggi fondamentali?

Ai palestinesi, se non la pace, quale altro mezzo può favorire un benefico processo di riconoscimento di Israele che ne riveli l'assurdità dell'obiettivo ultimo, cioè la sua distruzione?



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