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Lezioni britanniche: anatomia di una vittoria

di Giancarlo Rapetti*


In quarantotto ore dalle elezioni inglesi, che hanno dato la maggioranza assoluta in seggi alla Camera dei Comuni ai laburisti guidati da Keir Starmer, si sono sentiti commenti di ogni segno, che hanno tutti colto un aspetto significativo della vicenda britannica. Val la pena di sottolineare che nessuna considerazione può essere ripresa e traslata nel nostro sistema politico in modo automatico e acritico. Tranne una, forse, che anche nel Regno Unito cala la partecipazione degli elettori al voto. I partiti principali hanno avuto meno voti in valore assoluto rispetto alle tornate precedenti e i risultati collegio per collegio hanno determinato il rovesciamento della maggioranza parlamentare. Effetto del sistema elettorale, uninominale secco, che peraltro gli elettori ben conoscono perché non cambia da molto tempo; e quindi sanno come e per chi votano, e con quali effetti.

Infatti, è vero che il Labour dell’estremista, populista, antisemita Jeremy Corbyn (1949) prese più voti totali, in valore assoluto (ma non in percentuale), di Starmer, e fu il sistema elettorale a determinarne la débâcle. Ma, come si diceva prima, il sistema elettorale non è neutro, è concausa delle scelte degli elettori. Corbyn non riuscì a presentare candidati e programmi credibili nella maggior parte dei collegi, e il richiamo al totale dei voti suona come un artificio consolatorio. 

Per spiegare meglio, in un contesto completamente diverso, come il sistema elettorale condizioni le scelte degli elettori, varrà citare il caso dell’insuccesso, in Italia, delle due liste “centriste” (le chiamo così non sapendo come altrimenti definirle) alle elezioni europee. Ha inciso certamente lo spettacolo poco dignitoso offerto dai protagonisti. Ma, altrettanto vero, i sondaggi davano le due liste sul filo della soglia di sbarramento: in una parte degli elettori è scattata la molla del voto utile, tanto è vero che PD e Forza Italia, beneficiari della sindrome, hanno avuto risultati superiori alle attese.

Vanno anche temperati gli entusiasmi di coloro che, visto il nuovo Governo presentato in tempi record, magnificano gli effetti del maggioritario e della sua efficace governabilità. Prima di tutto, nel Regno Unito esiste il primato del Parlamento, che può sfiduciare il Governo, come è successo a Boris Johnson e a Liz Truss, sostituita da Rishi Sunak, senza sfiduciare sé stesso. Quindi nessuna parentela, neanche lontana, con il premierato de noantri de sora Giorgia.

Viene da chiedersi come mai un sistema elettorale così maggioritario nei suoi effetti garantisca comunque l’alternanza, e il permanere della democrazia rappresentativa, che da noi a molti dà fastidio. La spiegazione è storico-politica. La democrazia inglese è stabile e consolidata, e può permettersi forme un po’ sbrigative di attribuzione della rappresentanza. Esiste da prima della formalizzazione del Regno Unito, e non è in discussione da secoli. L’Inghilterra era una democrazia parlamentare quando da noi c’erano gli staterelli autoritari. Mentre una serie di Primi Ministri britannici dell’ottocento, che stanno sui libri di storia, tessevano il nuovo (di allora) ordine mondiale, nella penisola c’erano il Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie, i Ducati emiliani e le Legazioni pontificie, e si lottava per gli “Statuti”. Infine, il Regno Unito non ha conosciuto il fascismo, che per noi è una ferita recente, di quelle che si fanno sentire quando cambia il tempo.

Una lezione tuttavia, forse va colta dall’esperienza britannica. Si possono vincere le elezioni, si può costituire un polo di attrazione, anche senza essere estremisti e populisti. Anzi proprio perché non lo si è. Nel primo discorso davanti al numero 10 di Downing Street, Keir Starmer ha detto: “Il nostro sistema sanitario tornerà in piedi, i confini saranno solidi, le strade sicure”.

Se in Italia si vuole costruire un’alternativa di governo, occorre lavorare sulla ricostruzione di quell’area socialista-liberale-popolare che era poi la ragione fondativa del Partito Democratico. Detto adesso, sembra una cosa fuori dal tempo: ma il PD dovrà risvegliarsi dall’incubo contemporaneamente populista e woke (tradotto: economicamente insostenibile e culturalmente antioccidentale) in cui è precipitato. E gli Altri potenziali soggetti di quell’area dovranno trovare una linea coerente senza cambiarla ad ogni stormir di fronde. E’ necessario, “per continuare a sperare” (Lucio Dalla, L’anno che verrà, 1978).


*Componente della Assemblea Nazionale di Azione

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