Le ultime ore di Antonio Banfo in quel 18 aprile 1945
La devastazione procurata dal lancio di una bomba carta al Circolo Arci "Antonio Banfo", che codifichiamo come l'ennesimo atto vandalico contro luoghi o simboli che si richiamano alla Resistenza e ai suoi valori, ci induce ad aprire una finestra, soprattutto a beneficio delle giovani generazioni, su quel periodo storico e sugli uomini che l'hanno animata e che per essa hanno sacrificato la vita. Antonio Banfo fu uno di quelli. Militi della Repubblica di Salò, un regime fantoccio, dipendente in tutto dai nazisti, meno che dal terrore che riusciva a "redistribuire" ancora in quantità industriale a una popolazione deprivata dei generi di prima necessità e di legna e combustibile per difendersi da uno degli inverni più rigidi del periodo bellico, lo presero dalla sua abitazione insieme con il genero Salvatore Melis. In un clima di assoluto arbitrio, di noncuranze delle leggi e di prepotenza esercitata quotidianamente, gli eredi di un fascismo allo sbando sapevano di andare a colpo sicuro: Antonio Banfo, condannato per antifascismo negli anni Trenta, era il capo riconosciuto delle maestranze alla Grandi Motori. Un leader. Dunque, un uomo da eliminare per aver organizzato lo sciopero generale dichiarato dal Cln per contrastare il furto degli impianti industriali verso la Germania ed evitare ai gruppi partigiani di esporsi oltre misura in vista dell'insurrezione generale.
Su quei momenti riportiamo integralmente un articolo apparso su l'Unità del 23 aprile 1964, all'interno di un numero speciale per il Ventennale della Resistenza, scritto da Luisa Monti Sturani (1911-2002) - insegnante, intellettuale, figlia di Augusto Monti, attiva nelle file di Giustizia e Libertà a Torino - dal titolo "L'insurrezione popolare", che racconta il ruolo avuto da Antonio Banfo durante lo sciopero generale e le sue ultime ore.*
Giorno e notte lavoravano le tipografie clandestine. Era l'aprile 1945. "Arrendersi o perire", diceva un manifesto rivolto alle milizie fasciate e tedesche A migliaia di copie questo, arrivò per vie misteriose fin nell'interno delle caserme cinte di triplici barriere di filo spinato e guardate da cannoncini e mitragliatrici pesanti. I militi leggevano spauriti. «Sotto gli inflessibili colpi della gloriosa Armata Rossa e degli eserciti alleati, l'esercito tedesco è crollato!... Qualche giorno ancora e il nazifascismo sarà spazzato via dal mondo... Il popolo italiano vi dice: consegnate le armi ai Partigiani fin che siete in tempo... Non fatevi complici fino alla fine, dei traditori della Patria... L'ultimo minuto sta per scoccare... "Bisogna arrendersi o perire".
I militi fascisti, molti dei quali erano stati arruolati sotto la minaccia della deportazione, leggevano e impallidivano. Nella provincia intere caserme incominciarono a parlamentare coi partigiani e a consegnare ad essi le armi dietro la promessa di aver salva la vita. Anche in città invano i capi fascisti minacciavano, pregavano, bestemmiavano. Ogni volta che c'era la libera uscita una gran parte degli uomini non rientrava in caserma.
Gli operai nelle fabbriche si tenevano sul piede di guerra e le Sap costituivano ora un vero esercito coi suoi capi ed i suoi compiti precisi e la collaborazione dei Gap si faceva sempre più stretta e coordinata. Il 18 aprile fu proclamato in Torino Io sciopero generale. L'urlo delle sirene che dall'inizio della guerra venivano quotidianamente provate, lacerò l'aria alle 10 del mattino. Il lavoro si fermò dappertutto, e gli operai incrociarono le braccia, il rombo delle macchine si spense e a poco a poco e nella grande fabbrica, la Fiat Grandi Motori, si fece il silenzio più assoluto. Gli operai stavano a braccia conserte ciascuno accanto alla propria macchina. Paolino e Paolone, con numerosi altri organizzatori, passavano di reparto in reparto.
Ovunque, visi fieri e decisi di uomini che mai più avrebbero sopportato di essere schiavi Improvvisamente, il silenzio fu rotto dall'urlo delle sirene della polizia. Non un operaio si mosse. La direzione mandò l'ordine di scendere in cortile. Il colonnello Cabras, triste figuro di sbirro fascista, voleva parlare con gli operai. Nessuno scese.
Cabras entrò allora nella grande sala macchine. Si sarebbe potuto sentire una mosca volare. Cercò di convincerli, sotto la minaccia dei fucili, a riprendere il lavoro. Quando tacque si fece avanti un operaio anziano e rispose per tutti: 'Noi non riprenderemo il lavoro, disse, gli assassini che ci governano devono sapere che non siamo disposti a tollerare ancora i massacri quotidiani degli operai, di cittadini, di intere famiglie. Noi agli assassini diciamo: BASTA!'.
Un urlo usci dal petto di tutti gli operai presenti: Bravo! Bene. - Cabras abbassò il viso pallido d'ira e strinse le labbra. Poi gli chiese il nome. Saputolo, sorrise e disse: — Antonio Banfo, ti garantisco che tu non vedrai più massacri. All'uscita della fabbrica Paolino e Paolone accompagnarono Banfo fino a casa. Prima di lasciarlo Paolino disse: - Dammi retta, non dormire a casa, vieni con noi, penseremo a nasconderti e a tranquillizzare la tua famiglia. Ma Banfo scosse il capo già grigio: — Sciocchezze, son vecchio, che volete che mi facciano? Paolino non osò insistere e lasciò Banfo. Ma l'indomani, nella fabbrica, Banfo non c'è. Una staffetta venne spedita d'urgenza a casa tua. Tornò poco dopo stravolta: la sera prima, alle dieci e mezza, quando già dormivano, erano stati destati di soprassalto. Una squadra di fascisti era penetrata nella casa dell'operaio e l'aveva trascinato via col genero, sotto gli occhi inorriditi delle donne e dei nipotini. I due cadaveri erano stati ritrovati all'alba in una strada della periferia. La notizia corse fulminea di /corica in fabbrica: hanno ucciso Antonio Banfo e suo genero. Li hanno assassinati per ordine di Cabras. II giorno dopo migliaia di manifesti denunciavano l'assassinio. Il popolo di Torino fremeva. Intanto, dal Monferrato, il comandante Barbato si avvicinava allo città coi suoi Garibaldini. Il 15, Chieri era stata liberata. Forti schiere di tedeschi si andavano concentrando ad ovest della città. Bisognava impedire ad ogni costo che si asserragliassero in essa provocando inutili stragi.
L'ordine di insurrezione era atteso di momento in momento. Finalmente, il giorno ventiquattro, il Comitato di Liberazione Nazionale diramò il comunicato speciale: - Aldo dice ventisei per uno. L'insurrezione doveva scoppiare alle ore una del giorno ventisei. Il 25 aprile gli operai non uscirono dalle fabbriche, ma vi rimasero, a guardia, in armi, tutta la notte. Su ogni ciminiera sventolava la bandiera tricolore. All'alba del 26, Paolone che stava di vedetta alla Grandi Motori, annunciò che i 7 tedeschi si stanno avvicinando. Un carro "Tigre" punta contro la fabbrica. Mitragliatrici e cannoncini entrarono in azione, ma il Tigre continuava ad avanzare.
Paolone urlò: 'Datemi una bomba anticarro, presto. La lanciò, ma a causa della distanza era impossibile colpire il bersaglio. Se il mastodontico carro armato avesse sfondato i solidi cancelli della fabbrica, la via sarebbe stata aperta al nemico. Era necessario distruggerlo. Mentre i partigiani ed i lavoratori si consultavano sul da farsi, un operalo, Eligio Da Fina, si allontanò inosservato. Scese in cortile, aggrappandosi a una tubatura riuscì a scavalcare il muro di cinta. Quando i compagni lo videro, già strisciava in direzione del mostro dal quale si sparava contro la fabbrica. Paolone trattenne a stento un grido. Il Da Fina, sempre strisciando, all'ombra del muro si avvicinava al carro. Quando fu a pochi metri di distanza, balzò contro di esso lanciando assieme due potenti bombe. Un fracasso spaventoso ne seguì e il carro fu ridotto ad un ammasso di ferraglie contorte e fumanti.
Da Fina non tornò indietro. Aveva dato la vita per salvare quella dei suoi compagni. Le fabbriche resistettero ovunque e nessuna ammainò la bandiera tricolore. La sera i tedeschi ed i fascisti ritirarono le truppe nelle caserme. Dalle fabbriche uscirono allora schiere di operai armati: andavano incontro ai partigiani per combattere al loro fianco. Dalla Grandi Motori, un gruppo che aveva alla testa Paolino e Paolone mosse verso il Po ad incontrare le truppe di Barbato che combattevano contro le milizie fasciste della Caserma di via Asti. Si combatté tutta la notte finché all'alba del 21 il nemico alzò bandiera bianca e si arrese.
L'aiuto degli operai era stata provvidenziale e Barbato li abbracciò ad uno ad uno. Ma non era ancora tempo di abbracci e di gioia: i tedeschi ed i fascisti si erano rinserrati nel centro della città, e tentavano di passare la Dora per raggiungere la strada di Chivasso. La battaglia era accanita ovunque. Sempre incombeva sulla città il pericolo che le colonne tedesche che fuggivano da ovest ci si asserragliassero. Bisognava difendere strenuamente la periferia. I nemici erano in numero dieci volte superiore, tuttavia, il 30 la città fu liberata. La vita riprendeva ovunque. Si riaprivano i negozi, i tram tornavano a circolare. La gente, per la strada, abbracciava i partigiani e piangeva di gioia. Di quando in quando però, secche fucilate ridonavano ancora per la città: erano il cecchini fa-scisti che mietevano le ultime vittime innocenti.
*Si ringrazia l'Archivio Storico de l'Unità
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