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Claude Raffestin

Le nuove frontiere dell’antieuropeismo

Aggiornamento: 21 apr 2023

di Claude Raffestin

Quando nel 1957, il trattato di Roma, che ha creato il mercato comune, è stato firmato, l’idea di cancellare le frontiere ha cominciato abbastanza velocemente ad invadere la testa degli europei. Perché? Perché le frontiere hanno, quasi sempre, avuto, a causa delle guerre, delle tasse e delle interdizioni di ogni tipo, una cattiva fama. In altri termini, per molti la frontiera era un’invenzione inutile che occorreva sopprimere. Errore! La cosa negativa nella frontiera è il ruolo eventuale che le fa svolgere lo stato. La frontiera non piace ma è molto utile per definire uno spazio di organizzazione e di gestione. Le divisioni territoriali sono indispensabili, esattamente come lo sono le differenze di senso tra le parole, se no avremmo un mondo di confusione e, alla fine, di caos. Fino agli anni ottanta molti autori nelle scienze sociali hanno evocato favorevolmente la scomparsa delle frontiere ma a partire degli anni 2000, i discorsi sono cambiati e le frontiere nazionali sono state di nuovo prese in considerazione. Una ragione di questo cambiamento è stata il flusso dei rifugiati provocato dai conflitti e dalla miseria attraverso il mondo. Dai confini “ritrovati” il no all’Europa

Abbiamo allora assistito alla chiusura progressiva delle frontiere e alla costruzione di ostacoli in filo spinato e/o di muri. Curiosamente quasi nessuno parla più della scomparsa delle frontiere. Questo significa che la frontiera non è più uno strumento di gestione ma un’arma. E nessuno sembra rendersi conto che l’installazione di questo tipo di frontiere è la negazione dell’idea stessa d’Europa. Per prendere solo un esempio, la politica ungherese in materia frontaliera è, per eccellenza, il modello del rifiuto della politica dell’Unione Europea. Da questo momento, se accettiamo un tal gioco con le frontiere politiche, significa che questi limiti diventano un regolatore dell’idea europea nei diversi paesi dell’Unione. Che cosa vuol dire? Vuol dire che l’Unione vale ciò che vale l’apertura delle sue frontiere. Ad esempio abbiamo già accettato un’Europa di Schengen e un’altra che non è di Schengen. Occorre non dimenticare che il ruolo che facciamo svolgere alla frontiera indica precisamente il livello della coscienza che abbiamo dell’Europa. Prima di tutto, la frontiera dovrebbe essere l’indicatore del nostro sentimento di appartenenza all’Europa e non uno strumento per isolarsi quando questa ci chiede un segno concreto di solidarietà! Strumento di indicazione non di regolazione

Recentemente alcuni capi di governo, particolarmente mediocri, per fare un esempio l’austriaco Kurz, hanno usato la frontiera come discriminante verso l’Italia e altri paesi del sud, col pretesto del Covid19, sempre con obiettivi di politica interna, mostrare il proprio rigore e la protezione dei propri cittadini, quando tutti sanno che l’unica vera misura è la distanziazione delle persone, cioè il mantenimento delle frontiere fra di loro e non la chiusura di una linea immaginaria, di cui il virus non è certo cosciente. In realtà una visione comune della frontiera, cioè misure unitarie di protezione, sarebbe servita meglio a diminuire il numero delle vittime. Quando la frontiera è usata come ostacolo alla mobilità della popolazione e come strumento di discriminazione, significa che non è più un indicatore e un regolatore e allora è il momento di ripensare che cosa rappresenta. La frontiera non deve diventare un oggetto di conflitto, come troppo sovente è stata, ma dovrebbe essere un luogo di relazione e di cooperazione. Siamo troppo influenzati dai miti della frontiera bellicosa e dimentichiamo quelli della frontiera sacra, che è invece sempre stata un luogo di protezione. Infatti, durante un lungo periodo della storia, i templi e le chiese erano considerati dei limiti sacri, aldilà dei quali l’autorità terrena cedeva il passo a quella divina ed erano quindi un rifugio che proteggeva i minacciati e i perseguitati. Oggi, la frontiera è troppo spesso il contrario, un mezzo per impedire, da parte della politica, l’accesso alla salvezza dei più deboli.

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