Le frontiere al tempo del coronavirus
Aggiornamento: 5 apr 2023
Mercedes Bresso in dialogo con Claude Raffestin
Le nostre società non sono avare di paradossi e contraddizioni. Qualche anno fa era di moda voler sopprimere le frontiere. In realtà nessuna frontiera viene soppressa ma essa viene, in sostanza, de-funzionalizzata, perché conserva soltanto una funzione legale di delimitazione di un territorio rispetto agli altri. Quando oggi, al contrario, a causa prima delle ondate di rifugiati e oggi della pandemia del corona virus, si evoca sempre di più l’idea della chiusura delle frontiere e della creazione di muri, o si riattivano virtualmente confini legali ad esempio quelli delle province, come se tutto ciò potesse essere davvero utile. Se è già difficile fermare delle persone, e lo abbiamo appreso in tutti questi anni, come possiamo pensare di bloccare con una frontiera legale virus così piccoli da non riuscire neppure a immaginarli?
Eppure le frontiere si stanno moltiplicando: si riscopre che la prima è quella del nostro corpo (ci viene chiesto di stare a distanza l’uno dall’altro e di coprirci naso e bocca, poi di chiuderci in casa o magari nella nostra camera, la frontiera più rassicurante), mentre all’esterno comuni, province, regioni, stati e continenti moltiplicano i divieti e le barriere. Per poi scoprire che il virus si trovava già in Europa ben prima che fossero noti gli allarmi in Cina.
Gli Stati riscoprono che la prima funzione del Rex era quella di tracciare i confini, di “regere fines”: e si dilettano a tracciarne un po’ ovunque, reali e virtuali, per poi accusarsi di non averne disegnati a sufficienza!
Lungi da noi negare che servono misure precauzionali, ma forse rileggere qualcosa sulla teoria della frontiera potrebbe essere utile anche ai nostri governanti. Il mito della fondazione di Roma è là per ricordarci che non appena qualcuno traccia un confine, qualcun altro è pronto a superarlo. (Per inciso noi italiani siamo tanti Remo: la frontiera decisa dal governo fra le zone arancione il resto del paese non ha resistito neppure un giorno, decine di migliaia di persone si sono precipitate a superarla per fuggire verso sud e hanno costretto il governo a vietare gli spostamenti in tutto il paese).
Nel nostro mondo contemporaneo le frontiere più insuperabili sono probabilmente quelle immaginarie, dettate da paure, ideologie, razzismo, preconcetti.
Al tempo del corona virus queste nozioni teoriche diventano strane realtà: bastano poche notizie alla televisione e le frontiere del mondo intero si chiudono prima per i cinesi, poi per gli italiani, domani chissà per i francesi o gli olandesi. Nessuno di noi si sente più al sicuro nella frontiera immaginaria della sua superiorità di cittadino di un paese ricco o potente. Domani forse saranno le frontiere turche a chiudersi ai cittadini tedeschi! E l’Europa intera potrebbe diventare una grande prigione.
In termini fisici, invece, i confini più difficili da superare sono di norma quelli delle prigioni e quindi la nostra lotta al corona virus sta trasformando le nostre case e città in altrettante galere. E il paradosso è che siamo noi stessi a imprigionarci e a impedirci di uscire. E chi sta nelle vere prigioni si rivolta per chiedere di non essere contaminato dall’esterno.
Ce ne rendiamo conto in questi giorni anche sulla nostra enorme nave da crociera: il nostro percorso è totalmente cambiato, in sostanza fuggiamo verso le zone dove il virus non si è ancora manifestato ma non sappiamo se quando arriveremo potremo sbarcare perché tutti gli Stati indenni ormai proteggono le proprie frontiere e rifiutano anche chi non ha nessun caso di contaminazione, esattamente come loro. E noi stessi quando sbarchiamo guardiamo con diffidenza chiunque ci si avvicini. In sostanza ognuno sembra ormai sentirsi al sicuro solo dentro ai confini della propria pelle
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