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La violenza di Netanyahu e il cambio di pelle di Israele

di Stefano Marengo


No, non c'è solo Netanyahu. E attribuire a lui soltanto le responsabilità del massacro in Palestina è un comodo esercizio di ginnastica intellettuale, molto in voga in Occidente, dove, nonostante tutto, ancora ci si rifiuta di fare i conti con la violenza dell’ideologia sionista in quanto tale. Naturalmente la figura del premier israeliano, che quanto a brutalità ha dimostrato anche nel reprimere il dissenso interno di non avere rivali, si presta bene allo scopo, così ci si dimentica – o si finge di dimenticare – che quanto accaduto nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania negli ultimi undici mesi – in realtà negli ultimi decenni – non sarebbe mai stato possibile senza un consistente consenso politico e senza la fattiva collaborazione di tutti gli apparati dello Stato.


Le scelte del premier contro il popolo palestinese

Eppure, nonostante l’odio e la disumanizzazione riversati sul popolo palestinese siano ancora oggi fattori perversi di coesione sociale, in questi mesi stanno sempre di più emergendo le profonde spaccature interne alla società israeliana. Beninteso, il punto di dissenso non riguarda in toto la sorte dei palestinesi, ma piuttosto l’ordine delle priorità politiche e la strategia per realizzarle. In questo senso, guardando la realtà sul campo, le opzioni rimangono due: o si raggiunge un accordo con la resistenza palestinese per il cessate il fuoco e il rilascio dei prigionieri, come vorrebbero le folle che manifestano quotidianamente a Tel Aviv, magari con un ritorno allo status quo ante 7 ottobre, ossia con la Striscia di Gaza ridotta a maxi campo di concentramento; oppure si prosegue con l’opzione militare per ripristinare la capacità di deterrenza spesa proprio dal 7 ottobre, cogliendo contestualmente l’occasione per annettere nuove terre, come vuole il movimento dei coloni e la destra politica (tanto quella nazionalista laica quanto quella religiosa messianica).

Se Netanyahu ha scelto la seconda opzione, ossia la continuazione della violenza, non è quindi soltanto perché, diversamente, il suo governo avrebbe le ore contate. In realtà egli sa fin troppo bene che, dopo undici mesi, la deterrenza israeliana è ben distante dall’essere ripristinata, ma soprattutto si rende conto che, se accettasse un’intesa per il cessate il fuoco, dovrebbe poi fronteggiare la probabile rivolta dei coloni armati, dei quali, peraltro, condivide i disegni annessionistici. Gestire le manifestazioni di civili disarmati a Tel Aviv, per quanto anch’esse, nel lungo periodo, possano degenerare in rivolta violenta, appare a Netanyahu il male minore, mentre l’ormai evidente disinteresse per la sorte dei prigionieri israeliani è un prezzo che il governo è ben disposto a pagare per l’espansione territoriale.


Le relazioni delle Nazioni Unite

Ricorrendo alle armi in un contesto simile, Israele si trova però nella condizione di dover sempre rilanciare con nuova violenza, a maggior ragione dopo che la distruzione di Gaza si è rivelata un fallimento politico e propagandistico e un vicolo cieco dal punto di vista militare. A questo riguardo, nelle ultime settimane diverse organizzazioni umanitarie hanno relazionato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite evidenziando come Israele abbia strutturato un vero e proprio sistema di centri di internamento in cui i prigionieri palestinesi, bambini compresi, vengono sottoposti a tortura e a violenze sessuali. La documentazione presentata e le immagini disponibili sono agghiaccianti e non per tutti.

Se questa “Abu Ghraib israeliana” – come è stata ribattezzata da alcuni osservatori per sottolinearne la barbarie morale – ha lo scopo di intimidire, umiliare e disumanizzare ancora di più i palestinesi, confidando in questo modo di fiaccarne la resistenza, l’altra faccia della medaglia è l’intensificazione della violenza in chiave geopolitica. Mancati gli obiettivi a Gaza, da mesi Israele cerca di provocare un conflitto con il cosiddetto “Asse della resistenza”. Ancora nelle ultime ore si sono registrati raid dell’aviazione israeliana sulla Siria e dichiarazioni di alti ufficiali delle Idf sulla pianificazione di una prossima azione militare in Libano. L’obiettivo di Tel Aviv è quello di coinvolgere gli Stati Uniti in una nuova guerra mediorientale e, al sicuro sotto lo scudo della superpotenza americana, ricostruire la propria capacità di deterrenza procedendo, al contempo, alla colonizzazione di altra terra palestinese. L’Iran e Hezbollah, tuttavia, non sembrano intenzionati a cadere in trappola, come dimostrano il differimento del contrattacco da parte di Teheran in risposta all’uccisione di Ismail Haniyeh e la strategia, fatta propria da Hassan Nasrallah, di logoramento del nemico attraverso un conflitto a bassa intensità sul confine tra Libano e Galilea.


Il ruolo della destra religiosa israeliana

Fallito, per il momento, questo tentativo di escalation, il governo israeliano sta adesso ulteriormente alzando la posta attraverso i massicci raid che da alcune settimane colpiscono quotidianamente la Cisgiordania, in particolare città simbolo della resistenza palestinese come Nablus, Tulkarm e, soprattutto, Jenin. Sui campi profughi, bilancio dell'ultima ora, sono morti almeno 19 persone e si registrano decine di feriti. Contemporaneamente, sono aumentate per frequenza e virulenza le provocazioni della destra religiosa, che parla apertamente di utilizzare la moschea di al Aqsa come luogo di preghiera ebraico o addirittura di radere al suolo la spianata delle moschee per erigere il Terzo Tempio. Il messaggio al mondo arabo e musulmano è chiaro. Di provocazione in provocazione, la leadership israeliana confida che, prima o poi, eromperà un conflitto totale e definitivo da cui Washington non potrà certo chiamarsi fuori.

Ma quando si parla di Cisgiordania gli obiettivi di Tel Aviv non sono mai soltanto strumentali. Proprio su quella terra, infatti, si concentrano le ambizioni coloniali e messianiche che sfociano nel delirio nazionalista della “Grande Israele”, ed è in questa chiave di lettura che vanno letti gli eventi recenti, con i raid militari di queste settimane che si sommano ai sempre più frequenti attacchi dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà. Tra migliaia di arresti arbitrari ed espulsioni forzate, quella che si sta configurando è una replica della Nakba del 1948, la pulizia etnica di ampie porzioni del territorio palestinese come primo passo nella direzione della loro annessione formale allo stato ebraico.

Di fronte a questo piano aggressivo, le classi dirigenti occidentali dovrebbero chiedersi fino a che punto intendono ancora garantire l’impunità di Israele, magari cullandosi nell’illusione che la società israeliana sia capace di esprimere un’alternativa alle politiche di oppressione e dominio. Bisognerebbe fare i conti con la realtà e capire quanti sono gli israeliani animati da senso di giustizia nei confronti dei palestinesi e, se non esistesse la variabile della liberazione dei prigionieri, quanti di coloro che oggi contestano Netanyahu nelle piazze non avrebbero verosimilmente alcuna remora nel sostenerne l’azione militare.


Le posizioni dei candidati Usa

L’unico modo per porre temine al massacro e rendere finalmente giustizia al popolo palestinese è attraverso una costante e decisa pressione internazionale, che tuttavia non può limitarsi a formali dichiarazioni di condanna, ma deve trovare concretezza nella gestione delle forniture di armamenti a Israele e in un adeguato regime sanzionatorio. Davanti abbiamo però un ostacolo insormontabile, ossia l’indisponibilità degli Stati Uniti d’America a tutelare i principi elementari del rule-based international order del quale, in altre circostanze (e a seconda delle convenienze), Washington si propone come integerrimo alfiere. D’altronde è anche chiaro che ben poco cambierà con il prossimo inquilino della Casa Bianca: se Trump non perde occasione per riaffermare il suo totale sostegno a Israele, Harris lo dissimula appena e, da vicepresidente in carica, conferma di volersi collocare in continuità con l’Amministrazione Biden.

Ma nel primo confronto televisivo di ieri tra i due candidati è emersa una "sorpresa", come ha rilevato Herb Keinon, che sul Jerusalem Post ha scritto: "Considerando il tempo e l’energia con cui i media statunitensi si concentrano su Israele era lecito pensare che i candidati avrebbero parlato più a lungo e in modo più approfondito della questione. Il fatto che non sia successo e che i loro commenti su Israele fossero in qualche modo prevedibili dovrebbe essere un promemoria per gli israeliani: non tutto gira intorno a noi". E poche ore prima del dibattito il Jewish Democratic Council of America ha diffuso i dati di un suo sondaggio sulle intenzioni di voto dell’elettorato ebraico Usa, tradizionalmente più vicino ai dem: il 68% sarebbe per Harris, il 25% per Trump.


L'analisi dello storico Ilan Pappé 

È penoso e angosciante osservare da quasi un anno il massacro del popolo palestinese e dover ogni giorno constatare la complicità dell’Occidente. Rimane tuttavia la speranza che la notte buia che stiamo attraversando sia la fase che precede una nuova alba. Come ha affermato lo storico israeliano Ilan Pappé, quello a cui stiamo assistendo è, con ogni probabilità, l’inizio della fine del progetto sionista. Sarà una fine violenta come quella di ogni regime di dominazione che, morente, ancora cerca di conservare sé stesso. Ma questa violenza, alla fine, non prevarrà. La dinamica che è stata innescata, il venire in piena luce delle fratture interne alla società israeliana, la sconfitta politica e ideologica di fronte all’opinione pubblica mondiale porteranno Israele al collasso. Per questo, conclude Pappé, oggi più che mai è necessario che la resistenza palestinese prosegua la sua lotta di liberazione e si organizzi per colmare il vuoto di potere che la fine del sionismo porterà con sé.  

 

 

 

 

 

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