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La scomparsa di Romana Blasotti Pavesi, simbolo della lotta contro l'amianto

di Michele Ruggiero


Piccola e minuta, occhi chiari dietro le lenti che negli anni erano diventate sempre più spesse, aveva fatto della parola il suo punto di forza davanti a taccuini e microfoni: parole nette, dure come la pietra, scandite con fierezza e determinazione per rappresentare in modo chiaro il dramma dell'Eternit e raccontare la storia infinita di Casale Monferrato, la città devastata dall'amianto. Era anche la sua storia. Che ascoltata, metteva ogni volta i brividi, e che quando prendeva per mano anche quella di migliaia di suoi concittadini, morti per l'esposizione all'amianto, colpiti da mesotelioma pleurico, accendeva di sdegno lo stato d'animo di chi le stava accanto.

Per tutti era Romana. Era la presidente dall'Associazione famigliari vittime dell'amianto, l'Afeva. E per tutti era il simbolo di una donna ricca di coraggio e di passione per la giustizia giusta, in prima linea, ammantata di una tenerezza a cui cedevano volentieri il passo gli stessi Pesce e Pondrano, i sindacalisti della Cgil che insieme all'allora sindaco di Casale Monferrato, il compianto Riccardo Coppo, un grande uomo, avevano ingaggiato una sofferta e, inizialmente, solitaria battaglia per gridare al mondo ciò che era noto, ma che sembrava destinato all'omertà: la verità che l'amianto uccideva e che i proprietari delle fabbriche in cui si lavorava ne erano a conoscenza da decenni.

Romana Blasotti Pavesi (nella foto in alto, sulla destra) se ne è andata ieri pomeriggio, all'età di 95 anni. Era nata in Friuli Venezia Giulia, figlia di una slovena, cui il regime fascista aveva impedito di parlare la sua lingua e di trasmetterla alle sue quattro sorelle. Ma non amava parlare di quel passato lontano che inevitabilmente incrociava lemmi violenti da una parte e dall'altra della barricata, frutti velenosi di quei crudeli anni di guerra civile e di "pulizia etnica". Anche lei era figlia dell'esodo di cui era opportuno, per una serie di ragioni (storiche, politiche, internazionali) non parlare. Diciottenne, nel 1947, si era trasferita a Casale Monferrato, dove avrebbe aperto il secondo capitolo della sua vita: un capitolo meraviglioso, le cui prime pagine erano dedicate all'amore della sua vita, un ex partigiano, che aveva sposato non ancora maggiorenne.

Erano gli anni della Ricostruzione, della ricerca di normalità e della sicurezza economica che l'Eternit, dove lavorava suo marito, assicurava; purtroppo, insieme anche ad altro, non facilmente eludibile. "Quell'altro" è la malattia ai polmoni che Romana Blasotti Pavesi incrocia negli anni Ottanta, quando suo marito la contrae e muore. Vedova a 54 anni con due figli e un carico di fragilità che non può mascherare. In una commossa testimonianza trascritta in un libro, confidò che [...] Per la malattia di mio marito era difficile non piangere, non far vedere le emozioni. Gli ultimi giorni mi chiedevo cosa pensasse lui di quello che provavo io. Io facevo la serena e quella tranquilla, ma cosa pensava lui? E mi chiedevo se fosse giusto, perché anche quello può essere una cosa intima. Le prime volte piangevo, poi mia figlia mi ha detto che non dovevo farmi vedere così, che la faceva soffrire. Allora piangevo per conto mio [...][1]

Un pianto liberatorio che le avrebbe però dato la forza di rialzarsi e di guardarsi dentro e di chiedere soprattutto a sé stessa, in preda a "una tremenda rabbia", che cosa avrebbe dovuto fare per fronteggiare un dramma che si stava allargando a macchia d'olio, che da privato diventava ogni giorno di pubblico dominio, che stava trasformando Casale Monferrato nella Spoon River italiana. Non ha esitazioni. Ma se anche ne avesse avute, un destino, davvero "cinico e baro" nella circostanza, le conferma che la lotta per riaffermare il diritto alla salute e alla giustizia è la strada giusta, quella da percorrere fino in fondo, come una missione: nel giro di pochi anni, Romana Blasotti Pavesi perde la sorella, il cognato, il nipote e una cugina per mesotelioma pleurico.


Una sequela di lutti che la prostra, ma non la getta nello sconforto. Anzi. Ne aumenta la volontà di esigere giustizia. Sono gli anni in cui diventa una icona nella lotta contro l'amianto, in prima fila a tutte le manifestazioni di protesta a Casale Monferrato, nelle assemblee pubbliche dell'Afeva, negli incontri con le istituzioni. I giornali locali la descrivono come "una pasionaria". E lei non si sottrae a quella che le appare una doverosa responsabilità. Non si sottrae al peso angoscioso delle morti che sa avere sulle spalle, che non sono soltanto quelle dei suoi famigliari: "ho tutte le vite, perché tutte mi fanno star male. Io conosco passo dopo passo i passi che abbiamo fatto, le fatiche e le rinunce e qualsiasi cosa. E di questo io posso essere testimone senz'altro, che l'ho veramente vissuta".

Vissuti terribili che il destino - quasi voler misurare il suo coraggio e la sua resistenza - non le risparmia fino alla più barbara delle prove per una madre: la morte di un figlio. Il dolore la tramortisce nel 2004, quando nel giro di pochi mesi scompare la figlia per lo stesso micidiale tumore, quello che quando fa capolino nelle radiografie fa calare, e non è un luogo comune, un assordante silenzio. E' la sesta morte nella sua cerchia famigliare.

Nell'ottobre di un anno prima, il proprietario dell'Eternit, l'industriale svizzero Stephan Schmidheiny aveva dichiarato al quotidiano La Prensa (el diario de los nicaraguenses):

"Quando avevo 27 anni, ereditai l'impero dell'amianto-cemento più grande del mondo e non tardi a rendermi conto - prima dei miei concorrenti - che si trattava di una maledizione come di un'opportunità. Abbandonai l'amianto nel momento giusto. [...] E' certo però che la fabbricazione e il commercio dell'asbesto hanno perso quasi ogni rilevanza. Senza dubbio il destino mi sorrise e benedissi i miei nuovi progetti, e ora sono varie volte più ricco di quando ereditai la fortuna di mio padre".



Ciò che Schmidheiny dimenticava di citare era la lunga latenza delle patologie amianto correlate, che continua a falcidiare inesorabilmente chi ne è venuto a contatto, anche se non necessariamente sui luoghi di lavoro. Tra le prime a ricordarglielo all'inizio degli anni Dieci, durante il primo processo Eternit a Torino, in corte d'Assise presieduta da Giuseppe Casalbore, pubblico ministero Raffaele Guariniello (nelle foto in alto), è Romana Blasotti Pavesi, come sempre determinata nel sentirsi "dalla parte della ragione".


Note


[1] Fanny Guglielmucci, Vita, morte e lotta nel sito contaminato di Casale Monferrato, prefazione di Antonella Granieri, postfazione di Laura Ambrosiano, Genova, 2016


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