La scomparsa di Giulia De Marco in Violante
- Michele Ruggiero
- 27 dic 2023
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di Michele Ruggiero

Minuta, discreta, elegante, rigorosa nel difendere il suo privato. Giulia De Marco la si ricorderà così, come la si vedeva, ma negli ultimi tempi sempre meno, in via Mazzini, a Borgo Nuovo, nella casa torinese dove abitava da una vita. Per tutti era la moglie di Luciano Violante. Ma per chi era entrato nel mondo del lavoro nella seconda metà degli anni Settanta era qualcosa di più: era un pretore che guardava con grande attenzione alle condizioni dei lavoratori e ai rapporti che si instauravano nelle fabbriche e negli uffici. E lo si sapeva dalle sue sentenze.
Giulia De Marco era stata una delle prime donne ad entrare in magistratura. Era il 1965. Il 23 febbraio del 1966 (l'archivio de La Stampa è provvidenziale) la si citava in un articolo dal titolo "Tra breve le prime sentenze emesse da donne giudici". Nelle righe c'era tutto o quasi il cambiamento epocale che stava attraversando il nostro Paese, da due anni - non senza scossoni e seduzioni di putsch militari - nell'orizzonte politico del riformismo targato centro sinistra, che includeva il Partito socialista di Pietro Nenni nell'area di governo. L'articolo sottolineava, con gusto che oggi desterebbe un tenero sorriso al pensiero di "come eravamo" e della strada (ancora accidentata) che hanno percorso le donne italiane dal 1946 ad oggi, che con "il loro ingresso in magistratura, era caduta una delle ultime roccaforti in cui sembrava fossero insuperabili le difficoltà per ammettervi le donne".
L'anno prima, il Csm aveva conferito le funzioni giurisdizionali a 117 uditori giudiziari tra i quali le sette donne giudici, le prime che avrebbero emesso sentenze nella storia della magistratura italiana. Fino a quel momento, proseguiva il testo, "con gli altri uditori hanno fatto pratica per sei mesi nei vari uffici, preture, tribunali, procure della Repubblica, dopo aver vinto il concorso svoltosi il 3 maggio dello scorso anno al quale su 2729 concorrenti ben duecento erano donne". Tra le otto vincitrici - una non aveva potuto completare il praticantato per maternità - vi era Giulia De Marco, destinata insieme alle colleghe Ida Capelli e Raffaella D'Antonio al Tribunale di Milano.
Da Milano, lei nata a Cosenza, aveva proseguito la carriera prima a Brindisi, nel 1968 a Torino, l'anno della ribellione, pretore nella capitale industriale d'Italia, nella città motore, anche nel senso letterale del termine dell'economia italiana, in cui gli operai non morivano mai in fabbrica, se vittime di un infortunio sul lavoro, ma rigorosamente in ospedale. Era la legge che imponeva la grande industria, raramente contrastata dalla magistratura. Da quel "formidabile" 1968, le cose sarebbero cambiate, soprattutto grazie ai pretori, non ancora d'assalto, ma sul punto di esserlo, così sul punto che uno semisconosciuto pretore del lavoro chiamato Raffaele Guariniello entrava in un mezzogiorno d'agosto 1971, mentre Torino si godeva il riposo estivo di macchine e uomini, nel Sancta sanctorum dell'azienda privata più grande e influente d'Italia per svelare al mondo l'intricata matassa di 350 mila schede compilate da prezzolati spioni e con cura conservate negli archivi dell’ufficio Servizi Generali della Fiat. Schede in cui si vi poteva leggere gli orientamenti politici, la vita privata e persino notizie sui gusti sessuali di migliaia di lavoratori Fiat e dei loro familiari, oltre che la descrizione dei sindacalisti, in particolare della Cgil. Schedature, nel solco della migliore tradizione dell'Ovra (la polizia fascista) e dei servizi segreti italiani, deviati o meno, dal Sifar al Sid. Non a caso, uno delle prime "menti" della sicurezza Fiat ai tempi del ragionier Vittorio Valletta, era stato quel Roberto Navale, ex maggiore dei carabinieri, ufficiale del Sim (il servizio segreto militare in epoca fascista), corresponsabile dell'uccisione dei fratelli Rosselli in un villaggio della Normandia.
Giulia De Marco, pretore del lavoro, lo sarebbe diventata nel 1975 e con quella toga avrebbe condotto decine di processi fino al 1982, anno in cui ci sarebbe trasferita negli uffici di corso Unione Sovietica, al Tribunale dei minori. Forse la sua autentica vocazione. Attenta e scrupolosa nel mai esimersi dall'affrontare qualunque tipo di questione delicata, come quella della sessualità tra gli adolescenti di famiglie a rischio, minori spesso traumatizzati che il Tribunale, sottolineava in un'intervista rilasciata alla Stampa, "non lasciava soli".
Temi scottanti cui non sarebbe mai venuta esponendosi in prima fila anche da presidente del Tribunale dei minori, cui era stata promossa nel giugno del 1997 a sostituire un totem della giustizia minorile a Torino, Camillo Losana. In un'intervista a Grazia Longo, apparsa il 29 settembre del 2005 su La Stampa, parlò con coraggio e senza frasi di circostanza sulla "prostituzione minorile", puntando fin dalla prima risposta sul dramma di chi non si limitava a vendere solo droga, ma anche il proprio corpo.
Raccontò: "Hanno appena 10, 12, 14 anni e già fanno parte di una rete di prostituzione che li arruola in Marocco, Algeria, Tunisia per portarli a Torino. Per fortuna sono pochi casi, ma il Tribunale dei minori non trascura quest'altra faccia dell'infanzia violata. Perché sempre di bambini si tratta, sia che rubino, spaccino o si prostituiscano" E aggiungeva: "Interveniamo per evitare che commettano altri reati ma anche per aiutarli, per salvarli da un destino segnato".
Un reclutamento già avviato nei continenti di partenza, Africa o Europa dell'Est, piccoli accompagnati in Italia con la prospettiva di fare i lavavetri o di vendere spugnette, ma destinati a una ben più triste vita. Commentava Giulia De Marco, con parole che potremmo tranquillamente riproporre oggi, quanto fosse impossibile aiutarli "se non escono dal sommerso della loro infanzia infelice, povera e disperata".
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