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La Repubblica c’è, ma gli italiani?

di Michele Ruggiero|

Leggi l’articolo completo | Download | Il referendum che cambiò l’assetto istituzionale dell’Italia si realizzò 75 anni fa. Ma il cambiò di mentalità, quello di cui si ha oggi un bisogno spasmodico, è ancora di là dal venire. Il 2 giugno gli italiani dissero sì alla Repubblica, relegando la Monarchia sabauda nei capitoli finali della storia. Umberto II, il re di Maggio, prese la via dell’esilio in Portogallo, seguendo la strada – obtorto collo – che nel secolo precedente aveva imboccato un suo avo, Carlo Alberto, dopo la sconfitta di Novara nel 1849 e l’abdicazione a favore del figlio Vittorio Emanuele II. Ma nel caso dell’ultimo dei Savoia, la carta dell’abdicazione era già stata giocata dal padre Vittorio Emanuele III e i figli erano ancora figlioletti. Alla Real Casa non rimaneva che la scommessa del referendum istituzionale, nonostante gli estremi tentativi di evitarlo esercitati dall’Impero britannico (dove erano depositati i conti correnti dei Savoia) e di Winston Churchill. Eppure il 2 giugno, con il concorso del suffragio femminile (le donne italiane avevano provato già l’esperienza dell’urna il 10 marzo dello stesso anno alle prime elezioni amministrative) il risultato referendario non fu un plebiscito a favore della Repubblica, come ci si sarebbe aspettato per le responsabilità avuta dalla Monarchia nell’avvento del fascismo e nell’ingresso dell’Italia in una guerra d’aggressione. Il regime di Mussolini aveva soffocato la libertà; il conflitto spianato materialmente e in parte moralmente il Paese, che si era ritrovato messo al bando della comunità internazionale. Il 2 giugno la Repubblica ebbe il 54,3 per cento dei suffragi delle 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini al voto. Retaggi secolari indussero una parte del popolo italiano, oltre 10 milioni e 700 mila cittadini, a votare per i Savoia, a credere ancora in coloro che avevano firmato le leggi razziali, che avevano “pasticciato” con l’armistizio dell’8 Settembre 1943, abbandonando le Forze armate al loro destino: centinaia di uomini, senza uno straccio di ordini per contrastare i tedeschi, destinate negli stalag nazisti. Uno spettacolo vergognoso della Corona e della sua corte militare e civile emerso con la vile fuga verso approdi sicuri, controllati dagli Angloamericani. Il 2 giugno del 1946, ad un anno alla fine della Seconda guerra mondiale, gli italiani si divisero nuovamente in due, e non solo politicamente. Nell’Italia Settentrionale e una parte di quella centrale, il Vento del Nord (la lotta partigiana) spinse con vigore la Repubblica alla vittoria, mentre al Sud il conservatorismo, la piaga dell’analfabetismo e la miseria endemica di vaste aree del Mezzogiorno concorsero a garantire un consenso monarchico di cui però sarebbero stati altri a godere come rendita di posizione politica nei decenni successivi. Allo spoglio delle schede e alla verifica della distribuzione territoriale dei voti, fu chiaro che la Repubblica nacque disfunzionale e claudicante. Pesava l’eredità sul Paese una mentalità clientelare e manipolatrice, codina e subalterna, levantina e intrallazzatrice, che il Fascismo aveva soltanto levigato con un lifting di facciata grazie a slogan guerrafondai, boriosi e ridicoli alla prova di forza. Ma nell’entusiasmo della libertà ritrovata l’elemento fu giudicato secondario. La cancellazione della dittatura autorizzava la massima fiducia nell’avvenire, anche se la Guerra fredda, la divisione geopolitica del mondo tra Occidente e il comunismo dell’Unione Sovietica di Stalin, avrebbe a sua volta cancellato l’unità nazionale di tutti i partiti con l’estromissione delle sinistre (Psi e Pci) dal governo De Gasperi (Dc), che si era cementata nella guerra di Liberazione e nella clandestinità. Il peggio di quella mentalità fu comunque anestetizzato pur tra mille contraddizioni, dolori, sofferenze, privazioni e violenze sociali, nel periodo della Ricostruzione dal meglio della gioventù e della classe politica. L’Italia aveva al governo e all’opposizione autentici galantuomini. Erano persone di cultura riconosciute universalmente nelle arti, nella scienza, nella letteratura, nello sport (non fu un caso che si fu ammessi alle Olimpiadi di Londra, a dispetto di Giappone e Germania). Erano dirigenti e funzionari di grande esperienza e coraggio la cui presenza nell’apparato dello Stato e nelle aziende pubbliche dava autorevolezza allo Stato. I ministri, scelti in base alle loro competenze e profili intellettuali e professionali, parlavano correttamente l’inglese, il tedesco e il francese, lingue acquisite sui banchi di scuola e comprovate da severi e “raffinati” esami in esilio, fuoriusciti per sottrarsi alle sentenze del Tribunale Speciale fascista, al carcere e al confino. Il peggio di quella mentalità riprese con rinnovato vigore nei decenni successivi, complice anche il boom economico contrassegnato da scandali a ripetizione, malandrinate e ruberie su scala industriale: fu il tramonto di uno stile e un costume che avevano fatto da argine alle inevitabili degenerazioni che inizialmente si ingraziano il popolo con la legittima richiesta dell’avvicendamento generazionale. Una locuzione che in anni recenti ha preso il barbaro e demagogico nome di “rottamazione” con le conseguenze da brivido che oggi vediamo. Il peggio di quella mentalità l’abbiamo visto riproporsi ancora negli ultimi giorni. Due episodi in particolare hanno caratterizzato l’essere italiani, lungi dall’essere sempre “brava gente”, come impone una retorica storicamente falsa sul piano civile e militare: il fine detenzione di Giovanni Brusca, il mafioso responsabile di 150 omicidi e dell’assassinio del giudice Falcone di sua moglie e della scorta e la condanna ai responsabili del disastro Ilva di Taranto. Nel primo caso, la discussione appare fuori tempo massimo quanto inutile: si applica una legge nota ieri, al momento della sentenza, applicata a esaurimento pena oggi. Discorso chiuso. Le appendici verbali sono aria ai denti. Ma se non convince, si prema sulla politica per modificare la legge. Siamo certi che in questa fase post pandemia, con la criminalità che apre sportelli di prestito sull’intero territorio nazionale…, mentre le banche chiudono le loro filiali per le tasche degli azionisti, sia opportuno? Sconcerta, invece, l’ipocrisia di chi non si interroga sul perché lo Stato è stato costretto a ricorrere ai “collaboratori di giustizia”, cioè a divellere dall’interno “Cosa nostra”. Ma l’Onorata società di Brusca, in carcere per 25 anni, è quella degli anni Novanta. Un’organizzazione diversa da quella attuale, non è più formata da personaggi caricaturali con coppola, giacche di fustagno, baffi e lupara d’ordinanza, ma da uomini insospettabili, eleganti e accompagnate da donne charmante, istruiti e presenti in centinaia di consigli di amministrazione di aziende, magari quotate in Borsa. Dunque una “Cosa nostra” più che mai invasiva, presente tra noi, dunque un po’ anche nostra. Una struttura criminale che, come ha mostrato una recente inchiesta di Report, cerca di realizzare in forma occulta, attraverso le giuste alleanze e complicità, ciò che Riina voleva dallo Stato con le stragi al tritolo: lo smantellamento del regime speciale carcerario per i mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi e affini. Il peggio di quella mentalità che ritorna. Questo è il vero problema, da cui non ci si deve distrarre con il “diversivo” di Brusca. Seconda questione: l’esemplare sentenza per il disastro ambientale dell’Ilva di Taranto e le conseguenti polemiche per alcune condanne. In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza, sarebbe opportuno studiare o ristudiare l’inchiesta su cui si sono pronunciati i giudici della Corte di Assise di Taranto. Rivedere la personalità dei Riva, le collusioni con la politica, le mediazioni (discutibili) dei politici locali e nazionali, le reciprocità dei ruoli tra corrotti e corruttori, il clima in cui si sono svolte le intercettazioni telefoniche e ambientali, i comportamenti dei sindacati e degli stessi lavoratori, le condizioni di lavoro e le lotte promosse nel tempo per risanare gli impianti, aiuterebbe ad avere una visione d’insieme destinata invece a sfuggirci ogni volta che si rincorre il particolare per nascondere verità scomode. Forse, potrebbe essere l’inizio se non per avviare un cambio di mentalità, almeno dirci con onestà chi ancora siamo, 75 anni dopo la nascita della nostra Repubblica. L’immagine grafica è stata curata da Roberta Bertero

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