La paludata politica Usa verso Israele
di Stefano Marengo
Dopo trent’anni di indiscusso (e indiscutibile) unipolarismo statunitense è difficile raccapezzarsi di fronte alla debolezza di cui Washington sta dando prova sul dossier israelo-palestinese. La Casa Bianca sembra aver perso buona parte del suo soft power e sta riscontrando enormi difficoltà nel dettare l’agenda politica agli attori coinvolti, Israele in testa.
Gli eventi degli ultimi giorni hanno un valore esemplare. Lo scorso fine settimana, come ampiamente riportato dalla stampa americana, era atterrato al Cairo nientemeno che il capo della CIA, Bill Burns, con il mandato di patrocinare la mediazione tra Hamas e il governo israeliano promossa da Egitto e Qatar. La mobilitazione di una figura di così alto rango chiarisce come la priorità, per l’amministrazione Biden, fosse quella di individuare al più preso una exit strategy da un conflitto ormai diventato logorante e insostenibile per gli stessi USA. E infatti, secondo quanto riferito dai media, dopo aver dato il suo benestare alla bozza di compromesso stesa da egiziani e qatarini, Burns avrebbe esercitato pressioni dirette sui vertici di Hamas perché accettassero l’accordo: una mossa senza precedenti, se si considera che gli USA da sempre dichiarano di non intrattenere relazioni con organizzazioni da loro condannate come terroristiche. Fatto sta che Burn deve essere stato molto persuasivo, convincendo i rappresentanti del movimento islamico a sottoscrivere i termini per il cessate il fuoco temporaneo e il rilascio degli ostaggi israeliani.
Sospensione delle forniture militari
È a questo punto, tuttavia, che è accaduto l’imprevisto (ma era davvero tale?), con il governo di Tel Aviv che ha comunicato che il compromesso non soddisfaceva le richieste israeliane e che l’invasione via terra di Rafah, deliberata all’unanimità dal consiglio di guerra, era ormai imminente. Gli Stati Uniti hanno finito col ritrovarsi ancor più costretti nel vicolo cieco da cui stavano cercando di uscire. Non volendo sconfessare gli israeliani – cosa che avrebbe seriamente compromesso i rapporti tra Washington e lo stato ebraico, – gli USA hanno di fatto rifiutato di prendere una posizione netta, in questo modo avallando nuovamente la linea bellicista di Netanyahu e ponendo l’unica condizione, variamente interpretabile, di evitare operazioni militari su larga scala. A suggello finale di questa ambiguità, per non dire una vera e propria schizofrenia politica, la Casa Bianca ha fatto successivamente filtrare la notizia di aver sospeso le forniture di munizionamenti destinate a Israele, cosa che è in plateale contrasto con la deliberazione di fine aprile che stanziava 26 miliardi di dollari per aiuti militari a Tel Aviv.
Alla luce di questa trama poco coerente, si potrebbe ritenere che gli interessi di USA e Israele semplicemente non collimino ma che, ciononostante, Washington non riesca a fermare l’alleato mediorientale, o quantomeno a prenderne le distanze. In tale lettura c’è sicuramente del vero. Essa tuttavia non coglie un aspetto politico fondamentale, ossia il fatto che sia Biden che Netanyahu, per ragioni diverse, si trovano a fare i conti con opzioni che, allo stato attuale, appaiono tutte ugualmente perdenti.
Per quanto riguarda Netanyahu, è evidente che, di fronte alla bozza di accordo sottoscritta da Hamas, aveva soltanto due alternative. La prima era quella di accettare il compromesso, il che, non essendo stato raggiunto nessuno degli obiettivi bellici (il ripristino del potere di deterrenza dell’Idf, la distruzione di Hamas e la liberazione manu militari degli ostaggi), avrebbe significato riconoscere la sostanziale sconfitta di Israele. A ciò sarebbe seguita la caduta del governo e, con l’estrema destra e i coloni radicalmente contrari ad ogni soluzione pacifica, l’emergere di una spirale potenzialmente incontrollabile di violenza interna. La seconda opzione era invece quella di proseguire nell’avventura militare e intraprendere l’invasione di Rafah, con scarse prospettive, tuttavia, di ottenere sul campo il successo mancato per sette mesi e la certezza, per contro, di isolare ancora di più Israele agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e di fornire ulteriore materiale alla Corte Internazionale di Giustizia, che dovrà giudicare lo stato ebraico in merito all’accusa di genocidio, e alla Corte Penale Internazionale, che potrebbe spiccare dei mandati di arresto all’indirizzo dei vertici militari e politici israeliani. La scelta di invadere Rafah, d’altronde, ha a sua volta indotto la crescita delle tensioni interne, con il movimento promosso dai parenti degli ostaggi che ormai ogni giorno contesta il governo occupando le strade di Tel Aviv.
Biden in mezzo al guado
Per quanto riguarda Biden, la questione è unicamente politica e di più immediata comprensione. Il Presidente USA ha infatti chiaro che la guerra di Gaza ha assunto un peso decisivo nel determinare le sue chances di rielezione il prossimo novembre. In questo momento egli si trova schiacciato tra l’incudine delle lobby filoisraeliane, che vorrebbero l’appoggio incondizionato degli USA all’avventurismo bellico israeliano, e il martello di una contestazione studentesca che, di giorno in giorno più ampia nonostante la repressione, pretende il disinvestimento dei fondi universitari dalle imprese israeliane come viatico per la liberazione della Palestina. Per la sua storia politica, Biden non avrebbe esitazioni nel seguire le sirene delle lobby sioniste, che per parte loro, disponendo di ingenti risorse finanziarie, hanno la capacità di condizionare pesantemente la contesa elettorale.
Sia il Presidente sia i vertici dei Democratici sanno tuttavia che perdere una porzione consistente del voto degli studenti sarebbe esiziale nella battaglia contro Donald Trump, tanto più che il movimento di contestazione formatosi nelle università, in virtù della sua trasversalità in termini di classe, genere, etnia e religione, ha tutte le potenzialità per trascendere i limiti della fascia d’età giovanile e condizionare l’orientamento elettorale di ampi settori di popolazione. A fronte di ciò, Biden e il suo staff appaiono ancora incapaci di elaborare una strategia politica credibile. Da qui deriva tutta l’ambiguità e l’incoerenza dell’amministrazione USA, un sostanziale immobilismo che di certo non è una soluzione ai problemi sul tavolo.
Vedremo nelle prossime settimane come evolveranno le posizioni di Israele e Stati Uniti. Qui, in conclusione, è opportuno quantomeno nominare il convitato di pietra dell’intera analisi, ossia la resistenza palestinese. Non è infatti un caso o una pura fatalità che oggi Biden e Netanyahu abbiano in mano carte di scarso valore e siano nelle condizioni di dover operare scelte dolorosissime per il loro futuro, con in più la prospettiva di dover prima o poi riconoscere una sconfitta storica. Il fatto che queste condizioni si siano create è dovuto innanzitutto alla strategia messa in campo dalla resistenza in Palestina, che ha impedito la vittoria militare di Israele e, beneficiando della solidarietà di un’opinione pubblica indignata di fronte a 35mila perone uccise e alla distruzione sistematica di Gaza, stravolto i piani degli Stati Uniti. Tenendo conto della sproporzione delle forze in campo e con tutti gli accorgimenti dubitativi del caso, si tratta forse del più grande successo politico mai ottenuto nella lotta di liberazione palestinese. Ma che non ha eguale nel pedaggio di vite umane.
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